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Meno male che il mio suicidio era alle porte.
Pietro Rinaldi, ottantenne (ex) scrittore, decide di morire finché ha la possibilità di farlo in autonomia. Il suo ultimo romanzo (uscito circa vent’anni prima dei fatti raccontati) si intitola “Andate tutti affanculo” e l’ultimo – celebre – capitolo “Tutti quelli che mi stanno sul cazzo.” E si tratta di un vero elenco. L’autore non lo dice, ma pare che sia un capitolo piuttosto lungo.
Giusto per inquadrare il tipo.
Pietro Rinaldi decide suicidarsi, in definitiva, perché si annoia. Non è malato, non soffre, non è solo ed abbandonato (è rimasto vedovo, ma vive nella stessa città della figlia Roberta e ha un nipote quindicenne di nome Diego).
È un vecchietto bilioso, sgarbato, ma che ha la mirabile dote di non raccontare (e non raccontarsi) storie.
Si presenta, con una lettera, in cui racconta perché vuole morire e come ha pensato di farlo.
Anzi, prima ci racconta come NON lo farà e perché: «Io voglio morire e su questo non ci piove, ma voglio essere libero di scegliere di non farlo, di cambiare idea magari all’ultimo momento. Non la cambierei, intendiamoci, ma è una questione di principio, non mi va di rinunciare come ultimo atto della mia vita alla cosa più preziosa che abbiamo: il libero arbitrio. Cosa faccio, urlo: “Spostati asfalto?” (…) Probabilmente finirei per temporeggiare perdendo sempre l’attimo fuggente, con il rischio di vedermi salvare da qualche angelo della strada, oppure, come minimo, di dover sopportare tutti i suoi ridicoli tentativi di convincermi a non farlo, magari puntando sulle banalità più sconcertanti quelle classiche di chi ti vuole salvare che, tra l’altro, sono in gran parte i motivi per cui mi suicido (…) Tra l’altro, per trovare un albero adatto all’impiccagione, robusto e riservato (diciamo dignitoso) dovrei prendere l’autobus, e prendere l’autobus per andare a suicidarmi è una cosa ancora più deprimente della stessa depressione che ti porta il suicidio.»
Un vecchietto bilioso, dicevamo.
Dopo aver preso congedo, con vivo sollievo, dalle proprio abitudini, Pietro comincia a mettere in atto il suo propostito: 3 pastiglie di tavor, mandate giù con un buon prosecco.
Ma proprio in quel momento…
Be’, lo avevamo capito che doveva succedere qualcosa.
Arriva Roberta, la figlia, ed annuncia la morte della suocera. Suocera che viveva a Parigi.
Quindi Roberta e il marito Fabio devono partire immediatamente e Pietro deve occuparsi del nipote quindicenne Diego, per qualche giorno. E del cane Sid. Un Terranova incrociato con un Sanbernardo, o qualcosa del genere.
Be’, non c’è bisogno di essere un vecchietto bilioso che si stava tranquillamente suicidando, per NON fare i salti di gioia.
E qui c’è uno dei due punti deboli del libro, secondo me.
Roberta usa questa conversazione (che in realtà è un monologo) a mo’ di manifesto/dichiarazione di intenti/analisi del suo rapporto con il padre ed approfitta anche per adombrare i rapporti di Pietro con il marito e il figlio.
In poche parole, Roberta, che deve correre oltre confine a seppellire la suocera e ha un miliardo di cose da organizzare, si mette a fare uno spiegone sul perché e il percome del suo rapporto con il padre, il marito, il figlio, la madre e quant’altro.
Ovviamente Roberta deve fornire informazioni al lettore, ma oltre ad essere un espediente poco realistico e a far emergere un personaggio di figlia piuttosto querulo, lamentoso e tristemente bidimensionale, ci fa anche capire che questo dialogo sarà importante, perché sarà l’ultimo che padre e figlia avranno.
Infatti, a Parigi, Roberta e suo marito moriranno.
Non voglio diffondermi e spoilerare troppo, ma Pietro sarà costretto a posticipare ulteriormente il suo suicidio, per occuparsi del nipote. Dovrà accompagnarlo a Roma, dove vive Marcello, il fratello del padre, che ha accettato di occuparsi di lui.
Questo zio, oltre ad essere ricchissimo, non frequentava la famiglia del fratello da oltre vent’anni.
Marcello, secondo me, è il secondo punto debole del romanzo, e, come Roberta, si esibisce in un lungo monologo quasi sul finale, ma importa poco, perché il cuore del romanzo è il viaggio di nonno e nipote da Genova fino a Roma.
Sulla vecchia macchina di Pietro, passando per Spianata Castelletto, Boccadasse, Porto Venere, Cecina, Bracciano e Ostia. Suona banale, ma sono luoghi a cui sono molto affezionata per motivi vari, quindi forse questo ha contribuito a farmi amare molto la parte centrale.
Pietro, Diego e Sid ritroveranno vecchi amici, se ne faranno di nuovi (forse) e vivranno pure qualche situazione un tantino dadaista. Naturalmente impareranno anche a conoscersi e poi ad apprezzarsi e volersi bene.
Non è una storia dove accade qualcosa che non ti aspetti (la “sorpresa” la introduce Marcello, ma, secondo me, è molto accessoria), ma è scritta bene e i personaggi di Pietro e Diego sono caratterizzati. Riescono, e non era facile, a non diventare macchiette.
E se la tradizione di “vecchi biliosi” amabili è feconda, quella dei quindicenni non lo è altrettanto.
Fino a Porto Venere, dove conosciamo anche Cesare (vecchio amico di Pietro), la narrazione è davvero preziosa. Successivamente prende un po’ il sopravvento il ruolo “istrionico” di Pietro a colpi di battute considerazioni acide ed argute (per la massima parte condivisibili, peraltro).
Il finale e l’epilogo, forse, sono un po’ “telefonati”, ma – mi ripeto – non è una storia in cui si cerca il colpo di scena o il tiro ad effetto.
È una storia piccola, ma che funziona ed è scritta bene.
Leggerò altro del mio concittadino scrittore.