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Le acciughe vanno a Woodstock
Il Bar Pavone di la Spezia è un bar come tanti altri; uno di quei bar alla periferia delle città i cui muri, che non hanno mai subito l’onta di una ritinteggiatura, hanno visto passare generazioni e generazioni di avventori tutti più o meno simili gli uni agli altri. E, come in tutti i bar di quel genere, anche questo è frequentato dalla solita, strana popolazione di consumatori: c’è il barista Gigi, detto Gigipedia perché sa tutto su ogni cosa, che dialoga con le acciughe sott'olio le quali prontamente gli rispondono a tono (da qui il titolo); c’è Ansia, l’ipocondriaco che gira carico di farmaci che consuma come panini e che consiglia ad amici e conoscenti; ci sono Giulio e Albè, i maniaci del biliardo, e la loro eterna partita; c’è Giulianone, lo scienziato, detto così perché dice di essere stato rapito dagli Ufo ed è una vita che cerca di mettere in bolla il flipper; ci sono i fratelli Chiappa, trio di forzuti, ingenui e duri di carattere, ma, in fondo, buoni come il pane; c’è Giulia, bellissima ragazza con alle spalle un matrimonio disgraziato; e c'è Gino il prototipo dell’impiegato statale, marinaio di coperta sui pontoni dell'Arsenale.
Nulla muta al bar Pavone, giorno dopo giorno, anno dopo anno fino a quando i frequentatori abituali non sono chiamati ad assistere alle esequie di Michele, uno degli habitué, ed alla successiva lettura delle sue volontà testamentarie. Michele ha lasciato qualcosa un po’ a tutti loro, ma ad una condizione ineludibile: Gino, suo ex compagno in una rock band mai veramente decollata, dovrà recarsi a Woodstock e girare un documentario della sua impresa da mostrare nel bar. Gino, inizialmente rifiuta quell'impresa che gli appare superiore alle sue forze, ma, poi, per sfuggire alla soffocante monotonia della sua vita, prende un po’ di ferie e parte per l’avventura, organizzata, sino nei minimi particolari, da Gigi.
Il Bar Pavone, quindi, si anima e si trasforma in una sorta di centro di controllo stile NASA nel quale, in tempo reale (meraviglie dell’astrazione romanzesca!), vengono costantemente monitorate e commentate le avventure dell’ “eroico” viaggiatore che, tra contrattempi, strani incontri ed improvvise diversioni dal piano originario, attraversa gli Stati Uniti e si avvicina lentamente, molto lentamente alla meta designata.
Alla fine, quando Gino riuscirà nell'impresa di giungere a Woodstock (ora una anonima distesa di granoturco) e ne riporterà addirittura un favoloso cimelio (autentico? mah?), il Bar esploderà in indicibili manifestazioni di gioia, come per un allunaggio. Con il ritorno a casa dell’eroe, però, tutti pigramente riprenderanno le abitudini di sempre.
“La ballata delle acciughe” è un libro strano, inconsueto e, per certi versi, di rottura di schemi consolidati. Indubbiamente è un libro comico, di una comicità surreale, e, ancor più spesso è attraversato da una sarcastica e graffiante ironia. Ma è anche un libro velatamente malinconico che sfrutta l’odissea del protagonista per effettuare una serie di operazioni di recupero di ricordi e dolci-amare reminiscenze con le quali, non di rado, si cerca anche la lacrima del lettore. I nostalgici flashback, poi, hanno l’inconfondibile sapore di reminiscenze autobiografiche: l’azione, ricordo, è per metà ambientata a la Spezia e Vergassola è spezzino, quindi non ci sarebbe da stupirsi che parte (o gran parte) delle rievocazioni abbiano un fondo di verità nei ricordi dell’autore. Questo insolito cocktail di situazioni fa del libro una lettura gradevole ed accattivante.
Tutto bene, quindi? Purtroppo no. Il libro, infatti, è afflitto da un difetto di fondo che ne mina un poco le pur ottime fondamenta su cui si basa la costruzione letteraria. Vergassola procede nella narrazione con lo stesso passo di carica, la stessa frenetica irrequietezza con la quale s’è reso famoso nelle sue caustiche interviste televisive a personaggi famosi. Le situazioni, le descrizioni, i dialoghi sono tutti eccessivamente compressi ed affrettati. Il lettore non fa in tempo ad assaporare un passaggio che gli viene presentata una situazione nuova e diversa, spesso con repentini voli pindarici. Dove ci si aspetterebbe e si desidererebbe un maggior approfondimento di descrizioni e ambientazioni, tutto viene svolto in maniera rapida ed affannata. Il tormentato viaggio di Gino verso Woodstock era una occasione imperdibile per trattare i vari argomenti con maggiore approfondimento ed in modo più circostanziato. In sostanza si è voluto dire troppo su troppe cose in poco, troppo poco spazio. Per dirla con una frase in sintonia con Vergassola, si sarebbe gradito un lungo, appagante rapporto d’amore con i personaggi, tutti degni di essere meglio conosciuti, invece, ci si è dovuti accontentare di una “sveltina” sul sedile posteriore della macchina e, giunti alle ultime righe, si ha l’amarezza di aver perso qualcosa di importante.
Quindi, come commento finale, la parola più appropriata è “peccato”: peccato che un’idea di base così promettente sia stata sprecata per un volumetto di sole 129 pagine quando ne meritava molte di più.