Dettagli Recensione
Mah...
Forse, la scelta migliore sarebbe ignorare l’etichetta ‘romanzo’ che campeggia all’inizio di queste duecento smilze paginette (pure scritte larghe). Abituati agli stratificati tomi narrativi che si sono succeduti da ‘Il nome della rosa’ in poi, si prova infatti un po’ di imbarazzo: non che quelli fossero privi di difetti, soprattutto nella parte narrativa, ma l’impressione che questo libro dà al confronto è di essere stato tirato via attraverso il riciclo di vecchi temi in versione light. Impossibile evitare il déjà-vu lungo la dissertazione dedicata ai vari ordini templari farlocchi in alcune pagine che sembrano una riproposizione liofilizzata di quelle de ‘Il pendolo di Foucault’: del resto, il racconto è contrassegnato da un complottismo ai limiti della paranoia che è da sempre uno dei temi su cui l’autore si diverte a variare. Considerando invece i vari capitoli come una serie di ‘Bustine di Minerva’ allargate e dedicate in special modo al mondo del giornalismo visto nei suoi aspetti meno nobili (ovvero come confezionare un foglio disonesto pur essendo all’apparenza irreprensibile), l’operazione finisce per funzionare meglio: ci si gode il citazionismo spinto che si rifà in modo indifferente a mondi ora dotti ora popolari, la lieve prosa spesso e volentieri con il sorriso sulle labbra, le veloci digressioni e, soprattutto, la capacità di giocare con l’esistente utilizzando di preferenza i suoi aspetti più banali, ad esempio ribaltando i luoghi comuni oppure nei paragrafi dedicati alla decrittazione degli annunci matrimoniali che si rivelano come i più godibili in assoluto. La resa complessiva tradisce così le premesse perché la sottile ma tutto meno che seriosa inquietudine del primo capitolo fa pregustare atmosfere e svolgimento che poi non si concretizzano: ecco invece la storia di un gruppo di giornalisti radunati da un direttore senza scrupoli per la preparazione di un giornale che sappia indirizzare l’opinione pubblica edito da un danaroso imprenditore milanese (chi sarà costui, visto che l’ambientazione è nella Milano di inizio anni Novanta?). Mentre sviluppa una storia d’amore tra perdenti (altro leit-motiv di Eco) di tenue per non dir nullo interesse, il protagonista Colonna viene trascinato dal collega Braggadocio nei vicoli tra via Torino e piazza San Sepolcro dove, in un trani un po’ vero e un po’ rifatto, parte una lunga digressione sugli ultimi giorni di Mussolini che, pur in varie parti interessante, finisce per occupare un peso sproporzionato nell’economia complessiva, visto anche che domina il capitolo più lungo del libro. Anche il finale, malgrado delitti e fughe, non sa coinvolgere e il lettore chiude il volume con la vaga impressione di essere stato preso per i fondelli: anche se l'operazione fosse solo una scusa per far riemergere ancora una volta quegli olezzanti misteri d’Italia (ci sono proprio tutti) che, si sa, riescono spesso a superare la fantasia del più ostinato dietrologo, penso si possa dire in tutta tranquillità che questa volta la ciambella di Eco non è venuta con il buco. A meno che – gomblotto! – non sia opera di qualcun altro intenzionato a screditarlo…