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La meglio gioventù
“Maledetta primavera”, romanzo d’esordio di Paolo Cammilli, desidera offrirci uno spaccato della “meglio gioventù” italiana; come sono comunemente considerati oggi, nell’immaginario collettivo, i nostri giovani. Cammilli descrive il nuovo stereotipo sui giovani italiani, i giovani non proprio “sensu strictu”, comprende nel numero anche gli universitari trentacinquenni fuori corso.
In particolare si sofferma sui nuovi “vitelloni”, quelli della placida e sonnacchiosa provincia italiana, che una volta si definiva “sana provincia” ma che oramai di sano non ha più niente, neanche il torrente che attraversa il paese dell’hinterland milanese scenario della storia, e da cui si leva il gracidare degli ultimi malridotti rospi superstiti.
A modo loro, e molto a modo loro, questi giovani sono meglio di quanto appaiono.
Giovani in apparenza vuoti, disamorati, senza valori, cinici e bari, aridi e materialisti, perennemente immersi in un vivere da puro gossip, quasi come se la realtà quotidiana fosse davvero, identica e perfettamente sovrapponibile, a quella descritta dai vari “chi” e “novelle” variamente patinate.
Perciò ritroviamo nel romanzo, seppure con altri nomi, i protagonisti veri o presunti del vivere “sotto le luci”: calciatori, attricette, veline, magistrati d’assalto rigidi e severi, intrattenitrici televisive dell’high audience. Non si fatica a riconoscere per esempio nei personaggi tratteggiati da Cammilli i veri, e verissimi, Bobo Vieri con l’universo di stelline gravitanti nell’orbita intorno ai divi del pallone, alla Fanny Neguesha, per intenderci, l’ex compagna di Mario Balotelli; e ancora citiamo Alberto Tomba e Maria De Filippi, nonché le veline, le letterine, o le meteorine che siano, bionde o more, tutte tese a eguagliare l’inarrivabile mito Belen.
Finanche si citano nel libro criminologi di fama ed esperti a vario titolo della psicologia criminale; questi ultimi frequentatori assidui dei vari salotti televisivi, che per un perverso gusto del macabro si moltiplicano esponenzialmente ogni qual volta si verificano nel Paese efferati e sanguinosi delitti.
I giovani descritti da Cammilli sguazzano in un’Italia divisa e diversa da nord a sud, e da città e provincia, accomunata oramai solo dal macabro interesse per gli eventi di cronaca nera.
Quelli più ambigui, efferati, misteriosi, quelli che permettono di schierarsi in fazioni, innocentisti e colpevolisti, gli unici eventi che senza soluzione di continuità e distinguo di luoghi e regioni, si susseguono incalzanti a ritmo pressoché quotidiano.
Disgraziatamente, appaiono gli unici, sventurati accadimenti capaci di destare ancora emozione e interesse, palpiti e attenzione, seppure per motivi morbosi, perversi, fuori da ogni logica di buon senso, gli unici che distraggano da qualcosa che, per una volta, almeno per una volta, non sia rappresentato dagli usuali abiti firmati, le automobili super, i gadget ultratecnologici, i lussuosi locali alla moda, con il corollario dei paradisi artificiali di vario genere ed intensità, indispensabile corredo di tale fasullo divertimentificio.
Ne viene fuori un romanzo sociale, se così vogliamo definirlo, un romanzo a più voci, in cui il vissuto dei protagonisti s’intreccia in un guazzabuglio solo presunto tale, le vite e le vicende di ciascuno s’intersecano, presto o tardi, in quelle degli altri, come normalmente accade, e sempre più spesso nell’epoca della globalizzazione, dando luogo a una storia dai ritmi altalenanti, a volte assurda e inverosimile, uno sparare cazzate a tutto spiano, per intenderci, provate a immaginare un campione di sci nordico diventato tale quasi per caso, e per di più originario da un paese di mare, per poi virare di colpo e bruscamente su binari intriganti e coinvolgenti.
La storia talora diviene misera e violenta, talaltra velatamente ironica per non dire comica, uno sfondo beffardo permane dalla prima all’ultima pagina; per un tratto la storia levita romantica e intensamente sentimentale, poi diviene ipocrita, meschina, laida, infine con un finale in crescendo, agghiacciante e del tutto verosimile. E tutto sommato è il finale che valorizza il tutto, a tutto dà un senso, il finale fornisce in poche pagine la misura e la motivazione dello scrittore toscano, il finale, benché ristretto, ci permette di valutare il talento di Paolo Cammilli.
Intendiamoci bene, a parer mio la lettura di questo romanzo non è tutta in pregevole discesa, buche nell’asfalto, curve strette e brusche frenate ce ne sono, e più di una, rendendo il percorso accidentato, il viaggio turbolento, ma certamente sono intoppi superabili, con tempo, esperienza e un più accurato ripasso del testo, prima di darlo alle stampe.
Il linguaggio, in particolare, ha bisogno di controllo, di accorta rifinitura: spesso non è un libro di facile lettura, oliato a puntino, scorrevole, fluido.
Talora è confuso, contorto, farraginoso, in certi punti banale; perché Cammilli si esprime, insiste ad esprimersi, in maniera colloquiale, quasi fossero chiacchiere da giovani “per definizione”, chiacchiere estemporanee da bar come da intenzione, che invece suonano come battute preconfezionate “da copione”. Il punto debole è questo, a mio modesto parere, il linguaggio, “riporta” il modo di esprimersi dei giovani, ma lo riporta solo, dimenticando che si sta scrivendo.
Dimenticando che andrebbe “tradotto”, si fa per dire, suonerebbe meglio rifinito, lavorato, cesellato, giacchè scrivere, raccontare, significa anche “tradurre” in maniera chiara, concisa, esauriente, riportando sì il parlato ma esprimendolo in forma scritta.
Voglio dire, uno slang riportato pari pari disorienta il lettore, va “intriso” nella lingua comune.
Ne consegue quindi un dialogo talora un po’ “a cocktail”, s’intrecciano vari modi di dire le cose, anche per questo viene meno la definizione di uno stile proprio.
Cammilli mescola tutto e il contrario di tutto, un po’ ricorda “Branchie” del primo Ammaniti, per poi defluire in “Amore 14” di Moccia; un po’ ancora gigioneggia alla Simenon, ma non essendo, non ancora almeno, ma glielo auguriamo volentieri di divenirlo, né Ammaniti né gli altri citati, il libro un po’ ci perde. Non perde invece in motivazioni o idee ispiranti, queste davvero ben tracciate.
Infatti, sembra suggerire Cammilli, se questi nostri giovani sono davvero così, se vivono trascinando la loro esistenza esattamente quasi fossero in un reality show, o in una casa del grande fratello, o protagonisti effimeri di uno qualsiasi dei programmi della tv spazzatura, allora siamo veramente alla frutta, allora siamo veramente messi male.
La gioventù è la primavera della vita, per definizione; se questi giovani, il nostro futuro, sono tutti così, vuoti, insulsi, incapaci, se per loro l’amore si dimostra solo con un cerotto anticoncezionale bene in mostra su una spalla, e la vita è un fottersi, letteralmente e no, in tutti i sensi, allora la loro primavera non è più una stagione, ma un perenne stato d’animo nefasto, un malanimo, una maledetta primavera. Per fortuna Cammilli lo vede, e lo dice, che così non è, per grazia.
Forse siamo alla frutta, ma per fortuna dopo c’è il dolce.
Lo dice a ragion veduta, lo dice perché è giovane e conosce i giovani, lo afferma convinto da giovane intrinseco nel mondo dei giovani, cittadino a pieno titolo del web, regno reale dei giovani e molto più realistico di quanto si creda. I giovani sono sempre molto meglio di quanto appaiono.
Possono bere fino a stordirsi, ma applicarsi spasmodicamente allo sfinimento per risolvere un efferato delitto. Possono essere ricchi, arroganti, presuntuosi e prepotenti, ma rifuggire sdegnati da una facile e impunita violenza carnale, anche se è su un soggetto a lungo ambito.
Possono cedere e portarsi a letto la migliore amica della donna che si ama, perché gli uomini sono cazzari che fanno cazzate, ma anche cercarla, considerarla, venerarla sempre e comunque, corteggiarla in tutti i modi possibili ed immaginabili, inginocchiandosi con un anello in mano come il principe azzurro dei bei tempi andati, o più prosaicamente finanche facendole recapitare quotidianamente il suo pollo arrosto preferito della coop.
Altri, ben altri, e non i giovani, che sono invece più spesso vittime delle generazioni precedenti, altri sono il male dell’attuale società italiana, con il loro assurdo e misero comportamento omissivo, illecito, fraudolento, con il loro esempio malevolo, nefasto e nocivo, altri sono colpevoli, ferocemente colpevoli e responsabili, e non sono più giovani o non più tanto giovani: per loro sì, per loro, e solo per loro, la primavera è maledetta, maledetta primavera che origina tale progenie.
“Maledetta primavera” di Paolo Cammilli in fondo solo questo afferma, e non altro, con amarezza, ma con evidente chiarezza. E tutto sommato, come dargli torto.