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Piccole tessere del regno smisurato
“(...) il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.”
Sulla scalinata del palazzo reale, il Gran Khan ascolta i racconti sul suo regno, sin dove esso si estende. Perché un re, costretto nella sua reggia, può conoscere i suoi domìni meno di un qualsiasi viaggiatore.
Chi gli siede accanto non è un viaggiatore come gli altri: è il veneziano Marco Polo, che ha girato le terre di quello sterminato regno d'Oriente, conoscendolo attraverso gli abitati che i sudditi vi hanno edificato.
Cinquantacinque città, quelle che lo straniero descrive, e tutte hanno un nome di donna: Zora, Maurilia, Valdrada, che si specchia nell'acqua come sia due città gemelle, Eutropia, Aglaura, Ersilia, fatta di fili tesi tra gli spigoli delle case, Melania, i cui abitanti vivono, rappresentano delle parti e nella morte si danno il cambio, Perinzia e tante altre.
Sulla scalinata del palazzo Marco Polo racconta, Kublai Khan ascolta, a volte vede immagini di città e chiede al viaggiatore in quale punto del regno si trovi ciò che lui immagina; altre volte si convince che quelle città narrate non esistono, o presto non esisteranno; o ancora che Marco Polo in qualche modo racconti sempre della stessa città, la sua Venezia.
Surreale più che debitore dei simboli, “Le città invisibili” è stato definito da Pier Paolo Pasolini il più bel libro di Italo Calvino. Vi si racconta di luoghi che si diluiscono in oggetti, connessioni, contraddizioni, incantesimi.
Cinque ritratti per ognuna delle undici sezioni dello scritto: le città vengono descritte per la memoria che conservano, i segni che le riepilogano, gli scambi che ospitano, gli occhi che sono in grado di attirare, il desiderio che contengono, il cielo che lambiscono, il nome che portano, i morti che continuano a viverci. Infine le città “sottili”, la cui linea di confine tra una cosa e il suo contrario è molto labile; le città “nascoste”, che recano in sé magie non facilmente decifrabili; le città “continue”, che riescono a rinnovarsi incessantemente.
E' tutto questo non è ancora il libro, perché il filo della narrazione è dato da un ulteriore racconto: quello del narratore (Marco Polo) che descrive le città all'ascoltatore (Gran Khan), tacendo del fatto che essi hanno alle loro spalle lo spettatore (il lettore). A volte, poi, i due soggetti si scambiano i ruoli: è Kublai Khan a raccontare di città mai viste, chiedendo a Marco Polo di abbinarle alle proprie visioni. Espediente narrativo – quello del racconto nel racconto – che regala al libro uno splendido alone di nostalgia, l'opportunità di rincorrere il paradosso e, in ultimo, una nuova occasione di riflettere sull'esistenza.
Alla fine le città invisibili sono il contrario delle nostre città invivibili (come sosterrà l'autore), o forse sono il racconto di quello che gli uomini hanno voluto creare, o forse di quello che non sono riusciti a creare pur intendendolo fare (in quanto monadi, gli uomini non sono in grado di fondare un luogo che realizzi una volontà unanime). O forse c'è ancora un'altra spiegazione, che non è dato intravedere...
E' il pregio di questo volume (e il motivo di tante interpretazioni e studi che lo hanno riguardato, fin nei meandri della sua costruzione logica, posto che davvero ci sia): Calvino medesimo affermò che libri come questo superano l'intenzione del loro autore e diventano piena proprietà del lettore. Un indizio anche questo?
“Forse l'impero, penso Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente.
-Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi,- chiese a Marco, -riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?-
E il veneziano: -Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi.-”
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Credo, Cristina, che sia un libro che possa affascinarti. Piacerti in ogni sua implicazione non lo so...
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