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Un libro crudele
Di Kaputt si potrà dire di tutto, nel bene e nel male, ma è indubbio che in chi lo legge lasci un segno profondo, un’incisione nella carne viva la cui cicatrice ci si porterà sempre appresso. Al riguardo, così scrive l’autore in premessa: “ Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell'Europa in questi anni di guerra. Tuttavia, fra i protagonisti di questo libro, la guerra non è che un personaggio secondario. Si potrebbe dire che ha solo un valore di pretesto, se i pretesti inevitabili non appartenessero all'ordine della fatalità.”. E se la guerra è appunto crudeltà lì c’è quella nazista, vale a dire il massimo che nemmeno conflitti passati, pur densi di orrore, ebbero a vedere. Ci sono scene che possono sembrare inventate, ma che ben sapendo di cosa erano capaci i tedeschi possono essere ritenute, se non vere, almeno possibili, come, per esempio, quella dei soldati russi, presi prigionieri, utilizzati nel gelido inverno come segnaletica stradale, a indicare una direzione, pietrificati nel sonno della morte. Non c’è solo orrore in questo libro che più che romanzo potrei definire una raccolta di racconti, di esperienze maturate, anche di articoli quasi giornalistici, senza un collegamento preciso fra loro, ma che comunque parlano sempre della guerra. Non c’è solo raccapriccio, ma anche il tentativo di dare una spiegazione logica al comportamento dei tedeschi, alla loro sistematica vocazione a portare solo la morte e, secondo Malaparte, la causa di tutto questo è la paura, non della morte, ma il timore di un possibile cambiamento, di un contatto con altri che possa venire a turbare l’ossessiva immutabilità del proprio stato; si tratta quindi di un’angoscia collettiva, propria di un popolo che, nel sognare la gloria, vede un mondo abitato solo da se stesso, finalmente libero da confini, da lacci e catene, da incontri con altri che possano minacciare la sua intrinseca fragilità. E’ un’opinione indubbiamente interessante quella per cui si uccide per paura, ma non trova spazio o non è approfondito il perché del perverso piacere di ammazzare, di quella fantasia funebre di cui i tedeschi hanno dato prova. La guerra per loro non è solo necessità, è compiacimento, è arroganza della violenza.
Beninteso, al di là delle opinioni personali, questo libro ha diversi meriti, ma forse ciò che in verità gli nuoce è lo stile troppo erudito dell’autore, che se da un lato rende ancora più stridente l’immagine sanguinaria di un conflitto, accompagnando crudezza a pietà, dall’altro sembra dimostrare che Malaparte fosse ormai uno scrittore non in linea con la sua epoca, un compendio di Proust e di D’Annunzio, che mezzo secolo prima avrebbe reso felici i lettori, ma che ora invece pesa sulla piacevolezza della lettura, visto che al tono aulico si accompagna anche una marcata verbosità, che porta a dilatare eccessivamente i tempi, rischiando peraltro di far perdere il filo del discorso.
Kaputt, insomma, è uno di quei libri da leggere solo dopo aver verificato la propria disponibilità ad accettare sia una prosa lenta, sia immagini che si possono senz’altro definire sconvolgenti, un evidente difetto che, pur tuttavia, riesce a trasmettere l’orrore di una guerra, già di per sé tragica in quanto tale, ma che nella fobia dei tedeschi divenne, si spera, irripetibile.
Concordo infine sulla paura come una delle cause del terribile comportamento nazista e personalmente aggiungo che in fin dei conti i tedeschi avevano veramente paura, ma inconsapevolmente di se stessi.
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Grazie.
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