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Eccola la mia "cianza"!!
Antonio Bevilacqua ha un grande sogno: l’Merica. Commediante di successo e rampollo di una buona famiglia proprietaria delle Fabbriche di Careggine in Garfagnana, invidiato e stimato dai suoi compaesani e giovane dalla personalità riservata ma anche eclettica, il 1926 è il suo anno; accompagnato da un bagaglio scarno di beni materiali – poco più che due cambi e un paio di scarpe – ma ricco di speranze, sogni e prerogative si imbarca per quello che sarà il (suo) Nuovo Mondo.
San Francisco, Antonio Bevilacqua, in ‘mericano Tony Drinkwater si trova di fronte ad un’America che non è più quel belpaese dalle mille opportunità, si dimostra al contrario essere una nazione nella quale per i Dagos è difficile partire, farsi notare, ancor di più per chi come lui ha il sogno di cimentarsi nell’arte del Muvinpicce, del Moving Picture oltreoceano. Ma non si perde d’animo il nostro teatrante. Inizia a lavorare nell’avanspettacolo e a farsi conoscere, arrancando tra l’ennesimo no ed il mezzo si, tra il successo di una sera e il rifiuto della successiva. La grande occasione, la sua cianza, sarà offerta niente e non di meno da Hollywood nell’attimo in cui verrà scelto e lavorerà per qualche anno come “controfigura schematica” di Charlie Chaplin nella realizzazione del film City Lights.
Ma anche questo barlume di successo sarà destinato a non avere un seguito tanto che al nostro Tony/Antonio non resterà che fare ritorno a San Francisco, riappropriandosi di quella vita di indolenza e nonchalance tipica di questa città multietnica e dal malinconico retrogusto, di questa metropoli affascinante, disincantata e poco generosa, incline ad offrire possibilità soltanto a chi è capace di adeguarsi ai suoi ritmi lenti ma al contempo frenetici e senza nulla concedere a chi non vi riesce. In questo contesto non c’è spazio per l’arte in senso ampio, è la patria di chi sa dar prova di buone pratiche di bisiness, di chi sa inventarsi un lavoro, rischiare, speculare a discapito di tutto e di tutti.
Antonio non si lascia travolgere né dalle lusinghe dell’amore, che tiene a debita distanza considerandole come una sorta di male necessario a cui adeguarsi, ne da quelle dell’amicizia offerta da quelle persone che costellano la sua vita di emigrante nella parentesi americana nonché nei giorni di disillusione italiana, quelli di una rondine che partita negli anni ’20 torna inesorabilmente alla base nel mite maggio del 1952 con quella dipartita che paradossalmente ci viene descritta sin dalle prime pagine dello scritto.
E quella solitudine che ha caratterizzato gli anni della giovinezza non lo abbandonerà in quelli dell’età adulta, in cui ne sarà vittima, la subirà, la ricercherà. Non mancherà l’ultimo sogno, quello della ristrutturazione del piccolo teatro pubblico di Vetriano dove egli stesso prestava la sua opera di artista prima di sussurrare quel silente addio alla terra natia.
Il romanzo si affida alla forma della fabula e racchiude in sé più di una fine e più di un principio. La progressione temporale è variegata, a tratti analettica, avvalorata da un linguaggio fluente ma volontariamente formale. Nel periodo in cui il protagonista è in Gargagnana non mancano epiteti alla carenza del luogo così come nella fase americana notevoli sono le storpiature della lingua da parte di tutti gli emigrati alla ricerca di fortuna. Ed è così che “You know” diventa “Iunò”, che “girl” si trasforma in “gherle”, “business” in “bisiness” e via dicendo. Questo, che è l’elemento caratterizzante del romanzo, a tratti può risultare l’elemento disturbante del testo perché il lettore, che nonostante tutto per la maggiore va ad intuizione, spesso è costretto ad andare in fondo allo scritto a consultare il “dizionarietto” che è stato apposto onde chiarificare i termini. Molto più attuale di quel che può sembrare.
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