Dettagli Recensione
Settimo Sigillo - Settima Arte.
Charlot, ormai vecchio, riesce a strappare un altro anno di vita alla Morte, venuta a prenderlo, facendola ridere.
Intanto scrive la storia della sua vita al figlio Christopher.
Dall’esordio – fortuito (anche se sarebbe il caso di dire sfortuito, dal momento che sostituisce la madre che resta “bloccata” in scena, primo sintomo della successiva malattia) – agli stenti iniziali, al successo.
Alla storia di Charlot si mescola quella di Arlèquin, uomo di fatica del circo, che, innamoratosi di una bellissima acrobata (Ezster), inventa per lei nientepopodimenoché il cinema.
Prima dei fratelli Lumière.
È molto difficile raccontare questo libro perché scorre via come una bella ballata.
Rassicurante ed accogliente.
Il racconto più di un nonno ad un nipote che quello di un padre al figlio.
Di quella vivacità in “bianco e nero” e un po’ magica che si percepisce proprio nelle narrazioni dei nonni, tanto lontana da sembrare sconosciuta, ma di cui facciamo indissolubilmente parte per il nostro legame con il narratore.
Charlot racconta della desolazione della sua infanzia (il fratello che gli legge Sherlock Holmes per fargli imparare la parte) e i suoi primi successi. Stan Lauren (l’unico più bravo di lui), il viaggio in America. E lui ad occhi chiusi e stretti per non farne entrare neanche un po’
Di quest’America che lo vede venditore di caramelle, pugile, imbalsamatore, tipografo, sceneggiatore, attore.
Sempre solo.
“Mi sentii immerso in una solitudine nuova, piena di promesse.”
Nella sua – iniziale – lotta per sopravvivere Charlot coltiva il sogno di ritrovare Ezster e recuperare la “prova” che non siano stati i fratelli Lumière ad inventare il cinematografo (anzi, ad un certo punto sembra che questo possa avere anche un significato, oltre il riscatto di Arlèquin, ma in realtà non sarà così).
Ma il racconto è una ballata di un nonno ad un nipote, quindi abbandono immediatamente l’idea di andare avanti cronologicamente, tanto sappiamo tutti come va a finire (la Morte vince. Ma va’? Ma anche no). Portare alla luce qualche momento, qualche personaggio e qualche frase.
Ho amato, Willie, il tipografo a cui mancano due, e che, curiosamente, ha dato un nome a quelle che non ci sono più, invece che a quelle che ci sono ancora e che è capace di cose straordinarie.
(“Willie si alzò in piedi e mi abbracciò anche con le dita che gli mancavano”). È un piccolo personaggio, il tipografo, ma ci soffri quando il Vagabondo lo abbandona, anche se sai che deve farlo [specie quando senti molto su di te affermazioni come questa: “(…) ma la mia insofferenza aveva ricominciato a solleticarmi i piedi e una mattina non ce la feci più.”]
Il mio momento preferito del libro è il viaggio in treno.
Un'umanità varia e variamente disperata condivide un pezzetto del suo sgangherato viaggio, in treno, verso non si sa bene dove.
“Peccato, disse Giò, sarebbe stato meglio non scendere mai da questo treno, tanto lo sappiamo quello che ci aspetta.”
Questa umanità un po’ sradicata che per il fatto di essere in un non-luogo riesce a trovare legami e calore. Solo perché sa – come Charlot - che dovrà scendere e andare via. Come sempre.
E come sempre la nostalgia sarà più dolce e il ricordo – oh sì – assai migliore della realtà.
“La nostalgia è sempre un sentimento sleale, si nasconde dietro una scala antincendio e ti sgambetta quando vuole.”
Ma ti rimette anche in piedi perché c’è qualcosa per cui vale la pena.
Ahimè Charlot scende dal treno, trova altre persone straordinarie e ricompone la storia di Ezster. Ritrova le sue lettere per Arlèquin e aggiunge altri metri di pellicola alla storia, altri sentimenti (perché l’unica telepatia che hanno gli esseri umani è la sensibilità), altri addii e un’altra partenza.
“Ci era bastato un giorno per affezionarci e per perderci.”
Il ritorno non soddisfa lo scopo della partenza, ma apre un periodo fulgido nella carriera del Vagabondo. Che però non perde la sua solitudine, la sua malinconia e il suo bisogno di partire.
Nel momento di maggior successo torna in Inghilterra, sulle tracce di Arlèquin.
Che poi scopriamo essere la Morte.
La Morte che ha inventato il cinema per offrire la memoria – e l’eternità - agli uomini.
Come accennavo, forse la cosa che mi è piaciuta di più è l’eterno andare del Vagabondo.
Il suo sentirsi sempre “sull’orlo di un trasloco.”
L’eterno non sentirsi mai a casa che forse – forse – significa solo essere a casa ovunque perché “casa” diventa dove ti trovi, purché ci sia tu e ci siano “le storie”. Charlot va sempre via, dal primo posto accogliente che trova, il negozio di caramelle, dove “non era una brutta vita” e “le storie andavano come caramelle”, e da tutti i successivi, fino a decidere di andare via dalla vita.
Ma ponendo l’accento sull’andare e non sulla vita.
Sul viaggio piuttosto che sul punto di partenza o sulla meta.
In questa chiave vedo anche il viaggio con Arléquin (volutamente non metto né “ultimo” né “finale”, vicino a “viaggio”).
E allora, forse, pensi che il signor Nicolò Ugo Foscolo, aveva ragione quando scrisse quella cosa meravigliosa che sono I Sepolcri, dove dice che l’unica immortalità che ci è concessa sia la memoria.
E, per come l’ha interpretata Charlot, la memoria e l’eternità sono il cinema.
E che quindi, alla fine, il nonno Charlot ha vinto.