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Nel buio del Medioevo, un incendio
Ci sono dei romanzi che è bello gustarsi lentamente, pagina per pagina, parola per parola, forse perchè in completa sintonia con l'autore o forse perchè si avverte che quel libro ha qualcosa di vero da insegnare e si prova dispiacere ad avviarsi verso la fine.
Certamente uno di quelli è "Il nome della rosa", prima opera del noto Umberto Eco.
Si tratta di un romanzo multiforme un po' atipico, e ciò è evidente già dalle prime righe.
"Il nome della rosa" infatti non è altro che un diario in cui un monaco benedettino vissuto nel XIV secolo, Adso da Melk, raccoglie, in maniera quanto più lucida e imparziale, una movimentata avventura in un'abbazia dell'Italia Settentrionale vissuta in qualità di novizio a fianco del suo mentore, Guglielmo.
Adso racconta la propria vicenda da vero uomo del Medioevo, con espressioni, lessico, metodi di ragionamento, e mentalità pienamente medievali, oltre a un latino che ne arricchisce le pagine qua e là. Eco riesce a rendere il tutto quanto più naturale possibile, senza neppure trascurare un particolare, a partire dalle misure utilizzate al tempo, fino alla suddivisione della giornata in base alla preghiera e al riferimento alle lenti ad legendum, che altro non sono che gli occhiali da vista. Anche la chiusura del romanzo-diario è palesemente presa in prestito dai monaci addetti alla stesura dei manoscritti: "Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole".
E ciò che colpisce è che niente appare mai forzato o artificioso; al contrario, la naturalezza con cui Umberto Eco riesce a immedesimarsi in tempi lontani come quelli del buio Medioevo è ammirevole e alla fine ci si chiede se davvero chi ha scritto l'opera non sia un uomo del XIV secolo.
Se attenersi al lessico, alle espressioni idiomatiche, alle abitudini di questa epoca può apparire un'operazione , non dico semplice, ma comunque fattibile, ben più arduo è riuscire a mantenersi coerenti in tutto ciò che si va scrivendo con la mentalità di fondo di un qualsiasi uomo di Chiesa del 1300. L'autore in questo romanzo eccezionale riesce a farlo in modo magistrale, mettendo in luce le debolezze e i pregi di questo periodo tanto accattivante.
Il basso Medioevo è un periodo definito buio dalla maggior parte degli storici. Malattie, carestie, disoccupazione e analfabetismo falcidiano la popolazione. Il sapere è in mano a una cerchia di "eletti", gli ecclesiastici, che nei loro monasteri manipolano la sapienza, decidendo per gli altri ciò che è lecito o meno conoscere. E' inevitabile che ci si concentri principalmente su testi sacri o su pergamene che rafforzano tesi coerenti con quelle della Chiesa e il resto finisce per essere censurato.
Si abbandona l'interesse per la poesia e per le humanae litterae oltre che per le scienze intese come studio della natura, vista come luogo di tentazione, una valle di lacrime in cui l'uomo deve resistere in attesa della venuta di Cristo. Da questa visione escatologica deriva una certa chiusura mentale ma soprattutto sospetto e resistenza alla novità che Umberto Eco non perde mai di vista, mettendo in mostra tutta la sua abilità di storico.
Ma questo in capolavoro ,che già ho definito appunto multiforme, non si intrecciano solamente storia e religione; le pagine sono permeate di filosofia platonica e aristotelica , chiave di risoluzione degli intricatissimi arcani di fronte ai quali Adso, con il suo maestro, si trova.
Infatti, come se non bastasse, "Il nome della rosa" è anche un sensazionale giallo che ruota intorno a una serie di omicidi, o meglio, suicidi scatenati dal desiderio di un manoscritto proibito, la seconda poetica di Aristotele, incentrata sull'esaltazione del riso come arte, odiato dalla maggioranza degli ecclesiastici in quanto esalta uno strumento come il riso il quale permette all'uomo di liberarsi dalla paura della morte e del giudizio di Dio.
E il mistero dello spietato killer è legato ad antiche questioni dell'abbazia che Guglielmo, spiccante per il suo acume e il suo ricorrente uso della ragione, riuscirà a svelare una per una, attingendo spesso e volentieri alla logica aristotelica e al rigore in generale tipico della filosofia.
Si tratta, insomma, di un capolavoro vero e proprio, in cui si alternano momenti in cui la lettura è rapidissima e concitata, e altri in cui è piacevolmente lenta, lasciando il giusto tempo al lettore per respirare tutta la sapienza che esalano le pagine.
Degna di nota la citazione finale, da cui deriva il titolo dell'opera, che , apparentemente insensata, permette un'ampia interpretazione: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus ("la rosa che è all'origine, esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi").
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Mi è piaciuto talmente tanto Eco che , quasi quasi, inizio "Il pendolo di Foucault". Tu lo hai letto?
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