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IL PIU' AGGHIACCIANTE DEGLI HORROR
Le etichettature con cui siamo soliti classificare i libri che leggiamo lasciano davvero il tempo che trovano. Questo per dire che “L’invenzione della madre” è uno dei più agghiaccianti horror che abbia mai letto: qui non c’è il maniaco immaginario, il feroce serial killer che aggredisce fra i fiordi dell’Europa del Nord o in un parco di Londra, qui non esce dall’ombra il mostro che prima o poi il poliziotto comprensivo e filosofo ricaccerà fra gli spettri sempre pronti a risorgere per intrattenerti un paio d’ore. Qui i campione del bene sono i barellieri, la dottoressa piccola, quella con le trecce, il chirurgo dalla mani miracolose, ma essi sono eroi ambigui, paradossalmente complici con le loro cure illusorie del cancro che uccide, massacrandone il corpo, la madre del venticinquenne cinefilo Mattia. Qui l’assassino carnefice è invincibile. Se entra in casa tua, essa diventa la stanza della tortura, dove tu sei condannato a guardare impotente la persona che ami e a seguire attimo per attimo la sua agonia. Allora non esiste più nulla, cose e persone diventano trasparenti, non hanno più un nome né un‘identità: il padre è solo più il padre, la ragazza è solo più la ragazza, la città e il paese diventano uno spazio anonimo, un luogo irriconoscibile, un palcoscenico vuoto ove tu e altri attori privi di talento balbettate le battute scabre di un copione mediocre. E la cosa più spaventevole è che l’incontro con l’assassino è esperienza diffusa, non eccezionale, potrebbe capitare e capita a chiunque. Per l’esordiente Peano, editor per l’Einaudi, non deve essere stato facile raccontare l’esperienza autobiografica che ha segnato la sua giovinezza. Ovvio forse immaginare che il libro nasca dalla necessità di accettare il trauma della morte della madre, necessita tanto più urgente per chi ha fatto della letteratura il proprio mestiere. Allora tecnica e stile ovvero il come raccontare la malattia sono un modo per esorcizzare l’annullamento di sé che nasce dal dolore e dalla devastazione. Ecco dunque la scelta di bandire il racconto in prima persona e di riempirlo a mo’ di documentario con descrizioni particolareggiate di una quotidianità sconvolta dall’obbligo di assistere una persona inferma, destinata a morire: la voce narrante è infatti uno sconosciuto che pedina Mattia passo per passo, ne registra pensieri e sensazioni, inframmezzando l’osservazione oggettiva con parentesi di commento. Una sorta di fotografo/ operatore cinematografico dotato di sonda, capace di penetrare le apparenze e di andare più lontano di coloro che gli eventi li vivono e ne sono vittima. Un narratore che possiede la parola salvifica, quella che inventa la verità scoprendola ( invenzione deriva dal verbo latino invenio che significa scoprire), quella che consente il colloquio a distanza fra il figlio e la madre, ovunque essa sia, qualunque cosa essa sia.
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