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Educazione palermitana
“Se nasci all'inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esiste altro.”
Palermo, estate 1993. Quartiere Brancaccio. L'inferno è la mafia. Il suo contrario sono i ragazzini non assuefatti ad essa. Non ancora.
In un diverso quartiere della città – di quelli che con Brancaccio non confinano nemmeno per errore – il diciassettenne Federico è pronto per la sua vacanza programmata da mesi: andrà in Inghilterra, dove qualche lavoretto gli consentirà di mantenersi per il tempo necessario ad imparare la lingua.
Ma c'è ancora qualche giorno alla partenza.
L'insegnante di liceo e parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, invita Federico a venire nel quartiere per dargli una mano...
Il ragazzo non immagina di essere di fronte ad uno snodo della sua vita; e non sa ciò che lo aspetta: conoscere sulla sua pelle il confine tra l'inferno e ciò che, in ogni senso, inferno non è.
Due cose sono raccontate in modo ammirevole in questo romanzo: Palermo e i bambini.
“Panormus” (“Tuttoporto”) viene narrata nel suo pulsare fatto di sudore e acqua marina, di voglia e paure, di singole esistenze e di vita collettiva. La bellezza della descrizione è data dalla sua parzialità: il libro non racconta la città ma alcuni suoi angoli; persino i riferimenti storici sono preziosi perché restano squarci (non intendendo l'autore riprodurre la storia con la S maiuscola). Solo un palermitano – Alessandro D'Avenia lo è – poteva proporre una Palermo così... vicina.
Quanto ai bambini, l'idea dell'innocenza da preservare è fin troppo sfruttata in letteratura e cinematografia. Ma il romanzo riesce a proporne una appassionata variante: il ritratto della giovinezza difficile a Brancaccio, della maturazione su una linea di confine, tra educazione all'omertà e alle piccole violenze e una speranza che prova ad affiorare da dentro (ma da dove?, si domanda la maggior parte di quei ragazzi, disorientati).
Va invece evitato un approccio al romanzo come racconto della storia di don Puglisi.
Lo stile di D'Avenia è carico, ridondante, talmente votato alla smania poetica da diventare a tratti iperbolico. Al contrario del prete di Brancaccio, che può essere definito da una sola parola: semplicità. E' stata il suo marchio, grandezza ed arma. Considerare “Ciò che inferno non è” una biografia, o qualcosa di simile, non gli renderebbe giustizia.
L'assassinio di un prete è cosa più unica che rara nella storia della mafia (oltre padre Puglisi viene in mente don Peppe Diana, ucciso per ragioni analoghe nel casertano), e le vicende, se si vuole rendere tutta l'importanza di queste figure, andrebbero narrate e assimilate in modo più diretto. “Alla luce del sole”, il film di Roberto Faenza in cui don Puglisi è interpretato da Luca Zingaretti, è preferibile al libro in discorso se si vuole capire la figura di un prete “scomodo”.
Per il resto, “Ciò che inferno non è” resta una valida prova di un giovane autore.
“Vorrei la libertà che dà il sapere di fare la cosa giusta anche se si è soli a farla.”
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Commenti
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Non ho letto tutte le sue opere ma concordo con Pierpaolo; nonostante la giovane età di D'Avenia e il fatto che sia considerato un autore per adolescenti, non mi dispiace. :-)
Sinceramente a me non è parso che D'Avenia sia un autore adolescenziale (come pure, mi dite, è ritenuto): semmai la sua voglia di dimostrare talento lascia l'impressione di uno stile ancora immaturo. Ma ha tempo...
Se è vero, invece, che il Federico del libro è lui, in quanto padre Puglisi è stato un suo insegnante, allora l'occasione è davvero persa, giacché, dal punto di vista del racconto di quest'uomo, il libro a mio parere lascia a desiderare.
Il film, Mario, è più essenziale: non un capolavoro, ma credo dovrebbe piacere.
Solo partendo dai ragazzi, le cose cambieranno....sempre più che convinta.
Ciao e grazie!
Pia
Penso tu ti riferisca alla citazione iniziale dal libro. Al proposito, il libro dà la tua stessa risposta: Federico, il protagonista, è un adolescente innamorato dei versi del Petrarca, che ritornano spesso nel libro. Non c'è dubbio che la cultura, in opposizione all'ignoranza, sia la chiave di volta, così come non c'è dubbio che in quei quartieri sia da studiare il modo in cui proporre un approccio alla cultura, tenendo anche conto che chi vi regna ostacola ad ogni costo queste dinamiche... In fondo don Pino Puglisi faceva cultura, e questo l'ha condannato... o, meglio, l'ha condannato il fatto di essere uno dei pochi a farlo.
La chiave d'accesso per una liberazione è la cultura e i coraggiosi che tenteranno, saranno ostacolati...
Ma io sono fiduciosa. Viviamo in una società dove la conoscenza ha ora mille possibilità; non esiste più la chiusura mentale legata anche a quella fisica.
Ora esistono mille strade e la mente ed il cuore di "qualche eroe"...ci son sempre stati! ...e ce ne saranno sempre!
Son uomini che hanno insita la forza di un grande amore...quello autentico e solidale.
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