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L'ironia amara di Eco
Il fatto che “Numero zero” sia l’unico tra i romanzi di Eco letto in poche ore può essere un dato indicativo della scorrevolezza del testo e di una trama coinvolgente, ma anche del minore impegno dello scrittore, che ci ha abituati a libri che richiedono, dopo l’ultima pagina, almeno una pausa di riflessione. In questo romanzo l’impianto è molto più semplice rispetto ad altri, certamente molto più di “Il cimitero di Praga”, il lavoro precedente a cui appare più legato. Entrambi hanno come elemento comune la dissimulazione della verità: nel primo utilizzando documenti falsificati e fuorvianti, in “Numero Zero” con la manipolazione dell’informazione, sintetizzata nella massima “i giornali non sono fatti per diffondere l’informazione, ma per occultarla”.
La trama del romanzo, il lavoro che impegna uno scombinato gruppo redazionale per un paio di mesi nel 1992 per la preparazione del numero di prova di un quotidiano trash, finanziato da un commendatore che vuole disporre di uno strumento di potenziale ricatto per poter accedere ai “salotti buoni”, è semplicemente il supporto per altre due tematiche.
Come in tutti i suoi romanzi Eco si avvale di dati e documenti reali sui quali innesta il suo racconto. In questo caso parte dall’ipotetica sostituzione di Mussolini con un sosia, che ossessiona uno dei redattori, Braggadocio, delirante dietrologo e millantatore (in inglese “bragger”). che partendo da tale fissazione pensa di trovare un filo connettivo che leghi tutti gli intrighi e le trame oscure che hanno segnato la vita italiana, con un’indagine che gli costerà cara.
Sarebbe interessante sapere se la trasmissione BBC “Operation Gladio” (ancora visibile su You Tube), ritrasmessa a cura di Augias in Italia nel 1992, riportata nella fase finale del romanzo, sia stata la fonte ispiratrice di questa riesumazione degli italici veleni o se è stata utilizzata da Eco per segnare il 1992 come anno di svolta, dopo decenni di oscuri intrighi, per arrivare non “al migliore dei mondi possibili”, dato che nessuno più di Eco è lontano da Candide, ma per approdare quanto meno ad una condizione di “calma sfiducia nel mondo che ci circonda, un mondo in cui la vita è sopportabile, basta accontentarsi”.
Il secondo filone, disseminato in una serie di considerazioni nelle riunioni del gruppo di redattori, mette a nudo le diverse modalità di distorsione dell’informazione, con pagine sarcastiche sui dossier, sulle tecniche di diffamazione, sulle frasi fatte, sulle interpretazioni alternative degli annunci matrimoniali, sui filtri delle notizie pubblicabili: pagine divertenti, ma spesso di limitato valore aggiuntivo.
Come nel suo stile Eco utilizza a piene mani ironia e/o sarcasmo, così da rendere più accettabile il suo pessimismo di fondo.
È una iattura per un romanziere debuttare con un capolavoro, perché tutti i romanzi successivi saranno letti partendo dall’interrogativo “sarà all’altezza di …?”con rischio di relativa delusione. Questo sembra essere il destino di Umberto Eco, partito con “Il nome della rosa”, un capolavoro assoluto, da leggere e interpretare a più livelli, seguito da opere pregevoli, com’è certamente “Baudolino”, ma di valore meno elevato o meno coinvolgenti.
Dal punto di vista del lettore possiamo mettere a merito di questo libro che una volta tanto non ci si sente soverchiati dall’ostentazione di una cultura impressionante, come capita nelle altre opere; le citazioni sono di livello nazional – popolare, almeno per chi conosce la storia recente del nostro Paese, con l’unico vezzo dell’”infundibulo cronosinclastico”, attinto da un libro di fantascienza, la cui comprensione ha richiesto il ricorso a Wikipedia.
Mi auguro che Eco arrivi ad ottenere l’agognato Nobel della letteratura, che a mio avviso meriterebbe per tutta la sua produzione letteraria: se così sarà non lo dovrà certamente a questo romanzo, che è comunque leggibile, essendo consapevoli che si tratta di un Eco “light”.
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