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Calembour
Un sopraffino calembour di elucubrazioni che ostentano un fittizio autobiografismo si potrebbe dire di quest'opera, cercando, senza pretese, di imitare l'inarrivabile gioco linguistico di Gesualdo Bufalino. E' proprio un curioso gioco, quello che, fin dalle prime parole, stupisce e spiazza inevitabilmente uno sprovveduto lettore (quale sono stato io, almeno in partenza).
Un gioco linguistico in primo luogo, fatto di aggettivi incastonati con inusitata naturalezza, in periodi barocchi, lanciati in rocambolesche acrobazie tra metafore, anastrofi e figure retoriche d'ogni specie. All'inizio ci si può scoraggiare leggendo, ad esempio, o meglio cercando di sillabare le parole «In verità i sogni sono solo manteche, truccherie e specchietti per allodole di primo volo. Il caos, mettitelo bene in testa è polvere negli occhi: un velo paradosso che dissimula le sublimi ascisse e ordinate dell'universal simmetria...». Eppure ci si accorge di come anche i più assurdi giochi di parole dell'autore, abilmente controbilanciati dal grezzo sermo cotidanus, appaiano a poco a poco sempre più limpidi e agevoli, con una certa soddisfazione da parte del lettore, non lo nego.
Ecco, l'immensa abilità di Bufalino è di scherzare con le parole, plasmarle, mischiarle, eloquenti commistioni di rifermenti e citazioni di varia natura (che testimoniano la vastissima cultura dell'autore), adagiati tra le righe, come accattivante sprone per il lettore.
È in questo modo che Bufalino introduce, sotto forma di memorie autobiografiche le storie dei suoi altisonanti personaggi, primo fra tutti il narratore, attore e spettatore del racconto, Tommaso Mulè, un tempo giornalista, con ambizioni di scrittore, disilluso dalla vita urbana, ora ritiratosi a vivere nello scantinato di un mostro di mattoni lasciato a metà, in periferia, come factotum dell'amministratore di condominio. «E poi? E con ciò?» domande come queste hanno portato il buon Tommaso ad abbandonare tutto ciò che ci è più caro, per cristallizzare la sua esistenza in uno scantinato senza tempo, cogliendo del mondo piccoli assaggi, scarpe, gambe, ginocchia attraverso un piccolo oblò che sporge sul marciapiede. Le sue avventure, o disavventure che dir si voglia, lo portano a riprendere un quasi coatto legame con la realtà, al di fuori del bizzarro condominio di Flower City, che avrà esiti plateali o forse nessuno, sulla sua distaccata esistenza.
Continua il gioco di Bufalino-Tommaso, che entra ed esce dalle situazioni in cui si trova, con disinvoltura, spettatore e attore di una stravagante commedia, o tragedia, pantomima che alterna ora il grottesco o l'assurdo di Bulgakov e Dostoevskij, ora le atmosfere di Sciascia, fino all'insospettabile epilogo. Una perfetta orchestra, che pur raramente eccede in ostentati eccessi, ma che risulta, alla fine, stupefacente.
«La mer, la mer, toujours recommenceè»
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Laura
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