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L'amica geniale, diventare grandi nella Napoli deg
L’amicizia non è fatta solo di intese, di affetto, di condivisione. È un sentimento complesso, dove trovano posto anche piccole invidie, antagonismi, la necessità di definire la propria identità attraverso la sensazione della propria superiorità o, al contrario, l’amarezza per una sconfitta; anche confrontandosi con le persone che scegliamo per amici, si cresce, si diventa donne, uomini.
Di questo racconta Elena Ferrante ne “L’amica geniale”, dell’amicizia forte e conflittuale tra Lila ed Elena (Lenù), la voce narrante. Le due ragazze si trovano a vivere in uno dei quartieri degradati della Napoli degli anni ’50, dove vige la legge della giungla, quella del più forte o del più ricco. Lina e Lenù decidono che diventeranno ricche scrivendo un libro e affrontano il progetto con grinta e determinazione, studiando e leggendo. Lila lo fa senza alcuno sforzo, la sua intelligenza pronta e intuitiva le permette di stare al passo dell’amica, anzi di esserle superiore, anche quando smetterà di andare a scuola, subito dopo le elementari; Elena con l’applicazione costante.
Intanto crescono, e la trasgressiva creatività di Lila la porterà a compiere una scelta diversa da quella di Lenù. Abbandona i libri per sposare appena diciassettenne un commerciante di qualche anno più vecchio di lei. A quel punto l’amica rivolge le sue attenzioni a Nino, che con la famiglia si è allontanato anni prima dal quartiere e che frequenta l’ultimo anno di liceo. Nino, impegnato socialmente, intellettuale, comincia a essere la pietra di paragone per la crescita professionale e umana di Lenù. Al matrimonio dell’amica sente di far parte della varia umanità del rione, tutta ben rappresentata, “la plebe” come l’aveva definita la maestra Oliviero. “La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari.” Ma Lenù sente anche di essere diversa: la cultura, i libri, l’hanno cambiata per sempre.
Sta proprio in queste insicurezze adolescenziali, nella continua ricerca della propria identità e del proprio destino, nella solitudine di una situazione intermedia, il sentirsi né carne né pesce, la bellezza del libro. Elena Ferrante mi ha conquistata anche con la sua scrittura fluida e piena, apparentemente mutuata dal parlato, esattamente come fa Lila nella lettera che invia a Lenù, in vacanza a Ischia: “…non lasciava traccia di innaturalezza, non si sentiva l’artificio della parola scritta. Leggevo e intanto vedevo, sentivo lei”. Sul finale l’autrice lascia in sospeso la questione di un paio di scarpe, che rivestono un ruolo importante nella storia. Magari riuscirò a leggere anche il resto della quadrilogia prima che con l’ultimo romanzo vinca lo Strega, sperando che intanto qualcuno scopra l’identità di questa misteriosissima scrittrice che si firma con uno pseudonimo. Qualcuno ha sospettato che si tratti della di Anita Raja, moglie di Domenico Starnone, o di Starnone stesso. Io non so; sono quasi certa, però, che si tratti di una donna, legata a Napoli, sui sessanta, e per il momento mi sentirei di escludere la Laurito.
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