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Gabbie dorate
Il racconto di un percorso intimo e segreto, che si perde nelle pieghe di un’anima randagia, in quel modo sottile e sotterraneo che segue chi non riesce ad esporsi, chi fatica a rendere manifesta la propria diversità e sceglie piccole isole di ribellione, tutto sommato conciliabili con una vita “dentro”, rispetto alla fuga o alla provocazione.
Questo è l’ultimo romanzo di Letizia Muratori, giornalista e scrittrice romana che, già dagli ultimi romanzi, comincia ad affermarsi, come merita, al di fuori della ristretta cerchia della cultura capitolina.
La storia parte in modo lento e, soprattutto, ha un inizio che non è un inizio, il lettore si trova già dentro una situazione: l’autrice lo introduce subito in un interno e lo lascia seduto tranquillo ad osservare i personaggi come se dovesse riconoscerli, e non incontrarli per la prima volta, mentre parte, da un luogo invisibile, la narrazione.
Il tempo della storia è spezzato, non conosce linearità se non per alcuni passaggi lunghi nei quali la scrittrice lascia intravedere gli antefatti, dando al lettore la possibilità di orientarsi…ma non troppo! “Animali domestici”, infatti, è un testo complicato, una storia in cui si innestano altre storie, in cui i personaggi vagano nel tempo, vanno e tornano con i loro spezzoni di vita cercando di incontrarsi e stabilire connessioni, rapporti, incontri.
Il romanzo è una storia non di fatti, ma di trasformazioni interiori, di persone che seguono percorsi che, spesso, non li portano da nessuna parte se non all’ interno di sé stessi, per accettare ciò che è difficile accettare, per fuggire in un altrove interno e costruirsi un luogo dell’anima dove trovare rifugio.
I rapporti sono difficili: amori familiari persi nell’ incapacità di essere presenti, amori fraterni confusi e disperati, amori di coppia ambigui, incerti.
C’è una protagonista che compare e scompare, lasciando spazio ad una pluralità di personaggi che fanno di questo romanzo una storia corale.
Letizia, scrittrice nervosa e sofferta, una vita sentimentale disordinata e una tendenza insopprimibile ad accucciarsi in interni pericolosi, è intrappolata in un caleidoscopio di sentimenti difficili da gestire. Al centro della vicenda (anche se tutti i fatti appaiono, in fondo, decentrati) un amore ambiguo e particolare: la relazione sghemba con Edi Sereni, personaggio perno del romanzo. Poliedrico e sfuggente, musicista mancato, giornalista, ex cronista di guerra, figura mitologica presente in tutta la vita di Letizia (“…mi fece uno strano effetto, come se il resto sella mia vita fosse stato solo uno scherzo, e la relazione con Edi, che aveva mantenuto i tratti di una parentesi segreta, si fosse allargata a comprendere tutta la realtà…”), Edi Sereni è il padre di Chiara: la sua amica d’infanzia, che ricompare nella vita di Letizia evocato proprio da lei, a distanza di anni, quando cede al desiderio di rivederlo e decide di inviargli la copia del suo ultimo libro, con dedica.
La migliore caratteristica del romanzo è, per me, in certe descrizioni di personaggi minori lievi e sospesi come gli anziani zii di Edi, costretti a vivere, in vecchiaia, come marito e moglie e per questo incattiviti e quasi impazziti di rabbia e rancore, o la piccola Chiara, incompresa da bambina, irrisa e umiliata nel suo mondo di dislessica non riconosciuta e divenuta un essere fragile e selvatico, consolata solo dai cani randagi a cui salva la vita portandoli nel suo rifugio, o i nonni inglesi di Simonetta (altra amica d’infanzia di Letizia), che attraversano i sanguigni quartieri di Roma con il loro distacco anglosassone un po’ snob e il loro sorriso remoto.
E’ curioso come l’autrice riesca, poi, ad abbandonare, repentinamente, storia e protagonisti per seguire personaggi sui quali inciampa per caso e che riesce a tratteggiare con pochi schizzi precisi e accattivanti (“…la signora del quinto piano che aspettava l’ascensore…viveva sempre su una soglia. Annodava sacchetti davanti a uno zerbino…scendeva furtiva in scarpette color panna e giacca rossa, stringendo tra le dita laccate d’albicocca, vaschette di polistirolo”) che ci proiettano all’ istante sulla scena, al fianco di Letizia, incastonandoci nel preciso momento che ha deciso di raccontarci: nelle sue emozioni di ragazzina, nel cortile dell’università o nel suo peregrinare tra case, cantine e letti promiscui di adulta irrisolta.
Sono presenze evanescenti, ma in un testo così eccentrico si allineano ai personaggi cardine della storia, acquisendo spessore e profondità che altrove non avrebbero.
E poi ci sono i luoghi. La poesia dei luoghi dal sapore vagamente gozzaniano: appartamenti “ricettacoli di oggetti abbandonati”, cantine umide che conservano vecchie poltrone coperte da lenzuola che hanno accolto infanzie lontane, terrazze condominiali, soggiorni con pareti decorate da stampe di balene, negozi di antiquariato. Interni che conservano umori, dolori, età di chi li ha abitati, restituendoli a chi li attraversa in altre epoche, carichi di significati impliciti e segreti.
Sfondo della storia, l’adolescenza di Letizia, che, nel libro e nella realtà, si colloca negli anni ottanta. Il romanzo è disseminato di rimandi a quell’ epoca fatti di oggetti (la crema abbronzante Lancaster, il baracchino) e topoi nostalgici e un po’ stropicciati (“Blade runner”, Grace Jones, i viaggi a Londra con gli spettacoli teatrali al West End).
Originale e inconsueto, è un romanzo da leggere, superando l’iniziale disorientamento, rinunciando a cercare il bandolo della matassa e abbandonandosi al fluire del racconto.
Io a metà del libro sono tornata indietro, all’ incipit e ho ricominciato, proseguendo poi a salti ed assaggi e tormentando le pagine con vergognose orecchie per poter riassaporare i passaggi più intensi o sottolineare le frasi che mi sono piaciute. Un approccio da adolescente che, credo, piacerebbe all’ autrice che parla a quel piccolo ribelle che è in noi e ha dovuto diventare nel tempo, per scelta, calcolo o necessità… un animale domestico.
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