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Doppia identità di una persona e di una città
Vi è una granitica coesione tra l’immagine sociale e l’auto rappresentazione dell’identità dell’ingegner Guido Marchisio, manager affermato nella sede torinese di una multinazionale, in piena ascesa sia nella vita professionale che in quella di coppia. Gli status symbols che segnano il suo ruolo, inclusa fra questi anche la sua compagna giovane, bellissima e intelligente, comprovano una solida condizione economica, non infastidita da pulsioni sentimentali o da sensibilità alle questioni sociali.
Nella sua torre d’avorio si apre però una crepa, quando un episodio puramente accidentale fa sorgere dapprima il dubbio poi la certezza di avere in sé una duplice identità: quella attribuibile ai fattori genetici dei genitori naturali e quella derivante dall’ambito familiare in cui è cresciuto. Due identità che hanno origini agli antipodi: una coppia di potenziali terroristi e una famiglia della borghesia torinese che l’ha adottato.
La curiosità, ma anche il senso di fastidio con cui aveva iniziato a indagare sulle proprie radici diventa, dopo un episodio drammatico, un processo dirompente. Se i padri hanno la colpa di esigere che i figli rendano conto delle loro azioni, questa pretesa diventa insostenibile se vi sono due padri antitetici. Tale lacerazione porterà l’ambizioso ingegner Marchisio ad afflosciarsi nella realtà di un “uomo senza qualità”.
Sulla duplice identità, sulle tensioni laceranti che ne son o generate, vi sono pagine fondamentali nella letteratura. Tuttavia in questo romanzo vi è una specificità: la stretta connessione fra le due identità in una persona e quelle che segnano la realtà urbana e sociale di Torino, con le sue caratteristiche del tutto peculiari. Una città in cui per decenni tutti sono cresciuti “ sotto l'occhio vigile della stesa matrigna, quella che una volta dettava il ritmo del nostro lavoro, del nostro riposo, che definiva l'orizzonte dei nostri sogni e che oggi, invecchiata e indebolita, è come quelle donne, un tempo bellissime, che del loro passato di creature magnifiche e crudeli, non hanno saputo conservare che la spietatezza". In questa immagine vi è la sintesi di un'evoluzione del sistema industriale e dei mutamenti sociali, delle dolorose tensioni che ne sono conseguiti.
Svanito con la fine di un protezionismo benevolo il rapporto tra la grande industria e la comunità torinese, idealizzato da Valletta, nulla sarà più come prima: la logica della competizione imprenditoriale porterà alla delocalizzazione di imprese, alla chiusura dei capannoni, alle tensioni che sfociarono nella “marcia dei quarantamila”. Una conflittualità che ha fatto emergere la contrapposizione tra due anime della città: una cultura torinese propria della borghesia, di cui Perissinotto tratteggia ironicamente in un flash un modo di essere, un valore, quello della discrezione: “Far piano, non disturbare, parlare a bassa voce, non chiamare le persone da una stanza all’altra”, e un nucleo antagonistico che ha fatto di Torino un epicentro del terrorismo.
Di tale realtà, “Le colpe dei padri” traccia un quadro vivo, con un’analisi della realtà torinese altrettanto ricca, ma certamente più coinvolgente di una ricerca di sociologia urbana. Lo stile è particolarmente gradevole, con efficaci pennellate che ampliano la narrazione a problematiche più generali, a considerazioni sulla storia del nostro Paese (da segnalare le frecciate sulle “creature dell’ombra”).
I frequenti rinvii a citazioni di film possono essere piacevoli per chi ama- come lo scrivente - il rapporto cinema – letteratura; possono, tuttavia, rappresentare un elemento di disturbo agli occhi di chi usa criteri più rigidi di valutazione dello stile narrativo