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L’INELUTTABILITÀ DEL DESTINO
Pubblicato postumo nel 1977 e scritto da un giurista che per un’intera esistenza coltivò gli studi letterari, l’opera può ascriversi alla condizione giuridica di lascito testamentario non come atto privato ma pubblico. La pubblicazione ha reso nota la grandezza di uno scrittore che in vita fu restio, accantonato il tentativo letterario con “La veranda”, a darsi un posto nel mondo delle lettere. Lo stesso Satta, celato sotto le spoglie del narratore, scrive e si augura che un momento di lucidità, prima della morte gli impedisca di mantenere vive e pubblicabili le sue parole facendolo così assurgere a certa immortalità.
E invece il romanzo esce ed esce postumo e ci dona il valore di un’esistenza persa dentro altre 7000, quali gli abitanti di Nuoro agli inizi del Novecento, qui rappresentati.
La voce narrante è lui, un giudice in pensione: si cela tra una miriade di personaggi che fa affiorare dalla sua memoria di vita per dar vita ad un romanzo corale dove unico protagonista è il giudice - metafora della solitudine umana - e unico oggetto il giudizio. Il narratore alterna la sua visone esterna all’ottica interna e presentandoci Don Sebastiano, notaio, e la sua famiglia, una moglie e sette figli, ci cala in un mondo che dal particolare assurge all’universale. E mentre il narratore cerca “di fermare onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se l’esistenza si fosse svolta in un solo istante”, si conosce Nuoro, la sua storia, le sue famiglie, l’importanza della vigna, l’atto della panificazione, il “fiat lux” dell’avvento dell’illuminazione pubblica, il progredire del tempo, dei tempi, degli uomini, dei costumi. E la terra inghiotte gli uomini e le discendenze si succedono e le storie individuali si disperdono in una storia universale e vita e morte si confondono.
Il narratore allora, fatti riaffiorare uomini e ricordi, imborghesito e al limitare della sua esistenza, dal cimitero, ove come in sogno si è recato speranzoso di non essere veduto assurge a “ridicolo dio” e chiama a sé i morti come nel “giorno del giudizio”. Scrivendone la storia si sente non tanto demiurgo quanto giudice e prosegue nel far affiorare uomini e ricordi: i maestri, la scuola, l’episcopio, i monsignori... Diventa quindi giudice di se stesso, gli altri lasciandoli all’oblio della storia e della vita, quando il ricordo soggiunge pungente e diventa anche la richiesta di perdono di un figlio che un giorno rifiutò l’atto d’amore della mamma sì da crucciarsene tutta la vita.
L’ottica straniante attinta dal modulo verista completa l’effetto di smarrimento lasciato al lettore che, scoprendo un piccolo fazzoletto di terra abitata da qualche anima, ritrova la peculiarità di una singola esistenza liquefatta nella moltitudine delle altre.
Un libro sulla morte, un libro sulla vita, una riflessione amara sulla condizione umana che a tratti mi ha ricordato Saramago, un libro sulla solitudine della condizione esistenziale, un libro sulla ineluttabilità del destino che forse alla fine assolve Dio dopo averlo a lungo chiamato in causa e a giudizio.
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Commenti
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L'opera merita davvero. Ciao
Non sapevo del Satta narratore in quanto di suo ho letto solo un saggio: "Il mistero del processo", appassionante e colto pamphlet sulla ritualità e la funzione di quella giustizia che dovrebbe esprimersi, per l'appunto, nel processo.
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Grazie per la segnalazione.