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Il desiderio di essere come tutti
 
Il desiderio di essere come tutti 2014-11-04 15:28:04 Marco Vassallo
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Opinione inserita da Marco Vassallo    04 Novembre, 2014

Commento

L’impostazione che Francesco Piccolo dà al suo Il desiderio di essere come TUTTI (edito da Einaudi) è di natura genealogica. L’io narrante – identificato in larga parte con l’Autore, sia per le indicazioni biografiche sia, specialmente, per diversi passaggi della sua carriera di scrittore e di intellettuale di sinistra, ben più riscontrabili delle prime – ripercorre le tappe fondamentali della propria esistenza – più precisamente i punti problematici di snodo, in seguito ai quali si producono i cambiamenti, le variazioni di prospettiva, la diversità di un modo di vedere se stessi e se stessi nel mondo – in un’apparente cronologia degli eventi rinvenibile dalla prima adolescenza all’età matura, ai giorni in cui scrive il suo libro. Si tratta tuttavia di un taglio genealogico in quanto il vissuto è interpretato attraverso la focalizzazione su quelle discontinuità che ad un tratto hanno incrinato l’unità e la continuità di una vita dall’andamento regolare, con le sue procedure e i suoi tempi, sulla quale si fissa – e che grazie alla quale è fissata - l’identità dell’io. È proprio la questione identitaria ad essere al centro del romanzo – preso nella sua accezione postmoderna, che fonde insieme biografia e spunti letterari, storia privata e storia pubblica, volutamente indisgiungibili e interdipendenti nel loro gioco di corrispondenze e di rimandi continui dal dentro al fuori e viceversa –, un’identità problematizzata fin dall’incipit, con quel «Sono nato in un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni», che fissa il primo punto di discontinuità dal quale prende avvio l’articolarsi della vita dell’io narrante. Non ci sono capitoli, né paragrafi titolati o semplicemente numerati, ad interrompere il racconto – che procede per analogie e, appunto, corrispondenze tra la vita del protagonista e quella dell’Italia, presa nei suoi eventi storici più significativi (e drammatici) – ma solo la divisione in due macrosequenze – possiamo chiamarle così – finalizzate a legare a filo doppio il privato e il pubblico.
La prima di queste macrosequenze identifica in Enrico Berlinguer (pubblico) la stella polare per la ricerca di una purezza interiore (privato), una «vita pura» che concili il modo di essere che si è razionalmente (sebbene fortemente spinto da pulsioni emotive di varia natura) scelto di vivere con gli eventi della storia e con le posizioni espresse dal Partito Comunista, cui l’io narrante aderisce con fede, oltre che con passione. L’arco di vita compreso in questa graduale ricerca di purezza, copre il ventennio dell’adolescenza, dal 1974 – precisamente dal gol di Sparwasser al 78° minuto di Germania Ovest-Germania Est, partita valida per i Mondiali, che rappresenta il momento esatto in cui l’io narrante decide, consapevolmente, di essere un comunista, aprendo irreversibilmente il conflitto con il padre, convinto sostenitore della Destra – al 1994, quando trentenne lascia la città natale, Caserta, per trasferirsi a Roma (privato), quasi in coincidenza con l’approdo nella Capitale di Silvio Berlusconi (pubblico), fresco vincitore delle elezioni politiche, che inaugurerà la seconda macrosequenza del romanzo («la vita impura: io e Berlusconi»), e il successivo ventennio dell’io-narrante come dell’Italia. A conferma di quanto le due macrosequenze letterarie siano strettamente connesse, e drammaticamente radicate nella congiunzione tra privato e pubblico, è il rilievo che assume la scultura di Diana e Atteone - il gruppo scultoreo che troneggia nella Grande cascata, in fondo al parco del Palazzo reale di Caserta - nell’ottica non solo della struttura del romanzo ma della vita stessa di chi lo racconta (e lo scrive). Proprio lì, ad un passo dalla cinta muraria – già scavalcata dai suoi due amici, coi quali aveva fatto razzie del frigorifero di vivande – in una reggia chiusa al pubblico, e quindi deserta, tinta dalle ombre del crepuscolo, il novenne protagonista, in quel giorno d’estate del 1973, nella solitudine di un silenzio irreale, increspato esclusivamente dal rumore nitido dell’acqua, percepisce indistintamente, e per la prima volta nella sua vita, che c’è altro, un altro mondo oltre al suo, oltre a quello fatto di casa, scuola, amici, nel quale ha vissuto finora, e che aveva, fino a quella folgorazione improvvisa, ritenuto una monade staccata da tutto il resto, dipendente ed autosufficiente, imperturbabile nei suoi privilegi borghesi, nei suoi ritmi costanti, nella circolarità delle sue abitudini. E sempre davanti a Diana e Atteone, 21 anni dopo, il neo Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, accompagnato dalla moglie e dai Grandi del G7 con le rispettive consorti, preso da un rigurgito di cameratismo, ispirato evidentemente dalla poetica magia dello scenario notturno della reggia - chiusa al pubblico a loro esclusivo privilegio, com’era stato in quella sera d’estate del 1973 per il protagonista - ebbe l’infelice uscita – nelle intenzioni una condivisibile goliardia – di mettere all’erta i suoi inconsapevoli sodali di non lasciarsi troppo coinvolgere dalle bellezze della Diana lunare, stagliata sul fondo della cascata, per non correre il rischio di «aumentare la famiglia».
Non è solo una battuta più o meno riuscita, più o meno consona al ruolo istituzionale di chi l’ha pronunciata, quella che rimane impressa nell’io narrante, ma una nuova discontinuità, un nuovo scarto, una nuova incrinatura del discorso, che sancisce in modo irreversibile (e irreparabile) il travaso del privato nel pubblico, commistione che determinerà lo statuto del discorso politico da lì a 20 anni. L’abbattimento di quel confine, marcato nettamente fino ad allora, tra vita privata e vita pubblica sarà il marchio di fabbrica del berlusconismo, e si tradurrà in una praxis dalla quale nessuno sarà alieno, anche – se non specialmente – coloro che vi si opporranno strenuamente e con convinzione. È l’essere coinvolti in tutto questo, nella deriva presa dall’intera società, oltre che dal discorso politico fortemente caratterizzato dal particolarismo di un Premier-industriale-magnate delle telecomunicazioni (per citare solo qualcuno dei numerosi e tentacolari interessi economici di colui che governa il Paese) e da un’agenda istituzionale concentrata sulle approvazioni di leggi ad personam - finalizzate a garantire la prosperità delle aziende della famiglia Berlusconi e, soprattutto, ad allontanare processi e condanne dal Primo ministro -, è il coinvolgimento in tutto questo che non salva nessuno, specialmente, ancora, coloro che si identificano in quella sinistra che ha tracciato un solco netto tra loro e gli altri, forti dell’intensità di una questione morale che avalla una posizione in tutto e per tutto reazionaria, ispirata ad un senso di purezza che dovrebbe garantirgli l’incorruttibilità da una gestione della vita pubblica così come la vogliono – e la praticano - gli altri, votandosi irrimediabilmente all’isolamento e ad una fiera emarginazione.
La questione morale, appunto, è ciò che la sinistra ha ereditato da Berlinguer, o meglio il lascito di cui frettolosamente – troppo frettolosamente – ci si è appropriati dopo la sua morte improvvisa, dopo l’oceanica folla al suo funerale, dopo quel TUTTI cubitale sulla prima pagina dell’Unità, senza arrivare a capire – per anni – che il significato della condotta politica di Berlinguer non era da rintracciare nella ricerca spasmodica di quella purezza che avrebbe distinto, per dignità e moralità, il Partito Comunista da tutti gli altri coinvolti nel Governo, ma l’esatto opposto: lo sforzo strenuo e costante verso la strada del compromesso, della compromissione, della contaminazione di idee e visioni nell’ottica di un tutti non di parte, che non raggruppasse i “buoni” escludendo i “cattivi”, ma inglobasse l’intero Paese, la totalità della sua cittadinanza. Poi, c’è il caso fortuito, c’è un gruppo di brigatisti che circonda un’auto scura, uccide la scorta e rapisce Aldo Moro, l’interlocutore di Berlinguer per il compromesso. C’è una lettera privata indirizzata a Cossiga che viene resa pubblica (ancora il travaso dal privato al pubblico). C’è la scelta intransigente dello Stato a non trattare – che rischia ancora una volta la confusione dell’interesse pubblico con quello privato, e viceversa -, c’è la morte di Moro e con essa la morte di qualsiasi prospettiva di compromesso che coinvolga il PCI. Da quel momento l’interlocutore della Democrazia Cristiana sarà il PSI di Craxi, e Berlinguer ripiegherà sull’alternativa democratica, chiudendo il Partito e i suoi elettori in un recinto fuori dal mondo, respingendo ogni tentativo di andare avanti. L’eredità di Berlinguer – nella lettura di Francesco Piccolo – è di natura morale, non politica, nonostante la governabilità sia stata la lotta politica di tutta la sua vita. La purezza e la reazionarietà sono state un ripiego, una linea di difesa alla quale il popolo della sinistra ha creduto troppo, calcificando una forma mentale che non si riesce più ad abbattere.
Il desiderio di essere come TUTTI è essenzialmente un romanzo politico, dunque. Ma non – o almeno non principalmente - perché rivive i momenti più significativi dell’ultimo nostro quarantennio di vita pubblica prendendo posizione e non rinunciando ad un’analisi personale dei fatti, bensì perché recupera una semantica della politica primigenia, intesa nel significato più genuino della relazionalità che è la sostanza stessa della sua definizione, una politica che non conosce steccati, confini, argini invalicabili, ma che cerca il dialogo specialmente con chi ha idee diverse, che ricerca con ostentazione la comprensione dell’altro, il compromesso – sì, il compromesso – tra orientamenti differenti in nome di un beneficio collettivo, che rifugga dalla purezza e pretenda la forma dell’impuro. Nel mezzo, c’è la vita dell’io-narrante, interiore soprattutto, ma in relazione costante col mondo nel quale si muove, perché crede fermamente nel presente, nella forza delle cose; c’è l’amore puro per Elena, militante di estrema sinistra, finito a causa di una frivolezza – uno Snoopy regalatole nel giorno di San Valentino e restituito al mittente con disprezzo; c’è l’amore impuro – perché fatto di problemi quotidiani, difficoltà e dissapori superati di volta in volta, di compromessi nella gestione dei propri spazi... - per la donna che sposerà e dalla quale avrà due figli, e che chiama Chesaramai per sottolineare la leggerezza, o meglio la lieve superficialità con la quale affronta le cose della vita. Ed è proprio la superficialità il residuo che resiste nel punto di vista mobile dell’io-narrante. Una superficialità addebitata inizialmente alla madre, ma che lui finisce col fare propria, al punto da diventare un abito mentale: sfiorare le cose senza mai farne parte appieno, in modo da rimanerne sempre un poco fuori, così come durante l’epidemia di colera dell’agosto 1973, così come durante il terremoto del 23 novembre 1980 – abbastanza vicini da sentirlo, ma non troppo da restarne coinvolti. È il diritto all’esistenza della superficialità che viene con forza ribadito in chiusura di romanzo, perché esistono le cose serie ma uguale dignità hanno le futilità, le leggerezze, le spensieratezze – tutte fanno parte della natura umana e se la sinistra non vive entrambe le realtà, non potrà che essere elitaria e dispregiativa. È la superficialità, inoltre - questo tipo di superficialità che incorpora le diverse nature e inclinazioni dell’animo umano - l’antidoto per le ricadute nella purezza, sempre presenti allorché si impugna l’etica come unico campo di discussione, praticando quello che Kundera chiama «judo morale» e che Piccolo mette in metafora con l’esempio di un gruppo di ciclisti che invade le strade della città con l’intento – sapendosi dalla parte del giusto – di umiliare la vita colpevole degli altri.
Un libro complesso e denso, questo di Francesco Piccolo, scritto in una prosa robusta, rigorosa, capace di accogliere e amalgamare testi di diversa natura e padroneggiare il ritmo più propriamente narrativo, così come quello saggistico, giornalistico, della recensione letteraria e cinematografica. Elementi eterogenei si sedimentano nella scrittura di Piccolo e si amalgamano in un corpus compatto ma allo stesso tempo sfaccettato, così da dare diversi punti di luce al cammino tortuoso – perché in fondo questo tipo di cammino è sempre tortuoso – della voce narrante, nel suo personalissimo passaggio dalla vita pura a quella impura - che altro non è che la trasposizione letteraria del percorso di ciascuno di noi.

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