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Il capitano Bellodi e la mafia.
Solitamente dopo aver letto un libro corposo e impegnativo, ne prendo sempre uno un pò più leggero, un pò per staccare dai "mattoni" di 800 pagine, e un pò per poterlo leggere magari più agevolmente anche per strada senza il rischio di perdere il filo. Stavolta mentre cercavo un libricino piccolo da mettere in tasca trovo tra le offerte della libreria "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, da cui è stato anche tratto l'omonimo film di Damiani. Era un libro che avevo già letto al liceo, ma onestamente, come spesso mi è capitato con i libri letti a scuola, ne ricordavo vagamente il contenuto e ancora meno lo stile. Decido così di comprarlo e vedere se a distanza di anni sarei riuscito a trovare nuove chiavi di lettura di quella che senza dubbio è l'opera più famosa di Sciascia. E così infatti è stato, quello che al liceo mi ricordavo come un semplice poliziesco, diventa un delicato, semplice ed efficace ritratto sulla mafia. Siamo nel 1960 e alle sei di mattina in un paesino siciliano (che nel corso del romanzo non verremo mai a sapere qual è) viene commesso un omicidio. All'arrivo della polizia, la piazza, che fino a 10 minuti prima era piena di gente in fila per prendere la corriera, improvvisamente si svuota, e i pochi che restano non ricordano nulla dell'accaduto. Il capitano Bellodi però, determinato e intelligente poliziotto, decide di indagare sulla questione. Tramite le indagini, che porteranno ad un secondo omicidio, il capitano riesce ad incastrare tre personaggi, di tre ceti sociali differenti, e anche di rango mafioso diverso, dal faccendiere/killer, al capo cosca, al boss mafioso del paese. Il capitano determinato si scontra spesso con l'omertà dei compaesani, vicini ai mafiosi ma ostili alla polizia, e alla fine riesce ad arrivare ad un passo dall'arresto dei tre sospetti, ma qualcosa di più grande lo blocca: lo Stato. Un romanzo scritto in maniera semplice e lineare, anche i dialoghi sono composti quasi sempre da brevi battute e il dialetto siciliano spiegato accuratamente, nella semplicità della scrittura troviamo però un profondo significato: la mafia non va a colpire il vuoto dello Stato (cioè dove lo Stato è più debole), la mafia convive con lo Stato e ne succhia l'anima. Emblematica è la storia che alla fine racconta il capitano Bellodi, quando un medico che cercava di impartire ordini ai detenuti mafiosi di un carcere siciliani viene prima picchiato e poi allontanato dal carcere. Fa ricorso, ma viene respinto, chiede giustizia ma gli viene negata, chiede di indagare a politici ai quali era vicino e questi gli dicono che meglio lasciare stare, e, alla fine, chiede ad un boss mafioso di far picchiare uno di questi detenuti che lo aveva fatto carcerare, è così avviene. In sostanza nessuno può niente contro la mafia, nemmeno lo Stato (che invece spesso ci è colluso), solo la mafia può qualcosa contro la mafia. Un romanzo di 50 anni fa ma ancora attualissimo.
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Anche a me ogni tanto capita di rileggere libri che ritengo importanti, e quasi sempre non ho da pentirmene: si scopre spesso qualcosa di nuovo e talvolta di essenziale.