Dettagli Recensione
La danza libera di Giacomo e Michela
…lo compro o non lo compro? E se lo compro, lo faccio perché l’ha scritto lui, o lo faccio perché penso che mi potrebbe piacere la storia? E quando lo leggerò, immaginerò le parole di carta pronunciate dalla sua voce, o lo leggerò e basta? E poi, se il libro mi piacerà, sarà perché è suo o sarà perché l’ho giudicato obiettivamente? E se non mi piacerà, sarà perché è suo o sarà perché l’ho giudicato obiettivamente?
Un dilemma dietro l’altro. Una situazione d’incertezza che si può provare di fronte ad un libro scritto da un personaggio famoso, di una fama conquistata per altra via, prima di entrare nelle librerie.
Credo che questo sia normale, e quasi impossibile prescindere da ogni pregiudizio.
Tuttavia, l’ultimo libro di Fabio Volo l’ho comprato e l’ho letto, tutto d’un fiato, anche in macchina, nelle soste ai semafori rossi. E alla fine ho deciso cosa mi piace e cosa non mi piace di questo romanzo.
La storia di Michela e Giacomo è intensissima, a tratti un po’ claustrofobica: ci sono loro e il loro “dentro”, non c’è il “fuori”, che è tutto concentrato in una New York molto citata e poco descritta.
I loro 8 giorni + 1 newyorkesi potevano essere vissuti in qualunque posto del mondo, purché lontano da tutto e da tutti, e del resto non è la cornice che conta, per quanto suggestiva.
Di Michela senza Giacomo sappiamo pochissimo, di Giacomo senza Michela molto di più, ma rimangono figure molto concentrate sul “qui ed ora”, senza il respiro dei personaggi di “Un posto nel mondo”.
Il messaggio che ho letto in questa storia mi piace, mi piace che una persona “regolare”, apparentemente risolta, non più di tanto infelice o insoddisfatta come Giacomo, molli tutto per seguire un sogno, o più che altro un’intuizione, per non dover chiedersi un giorno “come sarebbe stato, come sarei diventato, come sarebbe stata la mia vita se…”. Il più delle volte questo non lo facciamo e perdiamo delle occasioni, anche se spesso non ci sarebbe nemmeno bisogno di un volo transoceanico, ma basterebbe aprire gli occhi e la bocca, per sorridere o per dire qualcosa, quello che ci passa davvero per la testa.
Mi piace Michela, perché lei è una persona risolta, una che si conosce bene e che sta bene con se stessa, che forse non sa ancora esattamente cosa vuole, ma sa esattamente cosa non vuole e, giustamente, lo rifiuta.
La frase più bella del libro è sua: «mi sento orgogliosa anche quando spingo il carrello della spesa».
E qui si esprime il suo essere una persona piena.
Mi piace Silvia, il suo modo di voler bene a Giacomo, il suo spingerlo verso l’amore per Michela, e ho provato tenerezza per le sue paure, i suoi dubbi, e i vincoli che la tengono ferma.
Non mi è piaciuto l’incontro gratuito con Dinah, la signora americana al seguito del marito, un’immagine un po’ squallida e superflua all’economia della storia; mi è sfuggito il senso di questo quadro, in una storia dove mi pare ci sia poco di casuale.
Superato un iniziale fastidio, mi piacciono persino le dissertazioni un po’ “trucide”, anche se potevano essere un po’ più lievi, e mantenere lo stesso la loro efficacia.
Il libro trasuda, qua e là, un’incontenibile voglia di dissacrare, di sdrammatizzare, di smorzare i toni quando sembrano elevarsi un po’ troppo: è la vanga che rivolta un po’ il terreno, quando il romanticismo e la tenerezza rischiano di renderlo un po’ scivoloso.
Ci sono alcune immagini molto belle: il dito di Michela che scorre la pagina prima di voltarla, la nonna che confonde Giacomo con il defunto marito Alberto, Giacomo che annusa il maglione del padre e poi il guanto di Michela, la partita di calcio di Giacomo bambino, con il padre che è lì, ma non c’è.
E qui un’associazione acuta e delicata: Michela cerca un uomo che c’è, non un uomo che è lì. E Giacomo c’è, è nel giardino di Parigi, dove la danza è soltanto all’inizio…