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'Giustizia' e 'Srebrenica': un ossimoro infernale
Dirk, giovane casco blu olandese; Romeo, giudice spagnolo del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia; Dražen, soldato serbo con radici croate.
Sono loro, le tre voci narranti attraverso cui Marco Magini ricostruisce il doloroso puzzle del massacro di Srebrenica.
Un romanzo dalla prosa asciutta e lineare, interrotta brutalmente dallo stupro di un cadavere, dall'alcol, da una Camera di Consiglio divisa in due e dalla chioma bionda di un bambino che, di lì a breve, riceverà una pallottola nella nuca: un copione tripartito i cui riflettori sono accesi sul ludibrio di una barbarie senza vincitori e, di contralto, sul disperato tentativo di conservare un briciolo di umanità.
E' altresì palpabile il bisogno di comunicare, come se una confessione pubblica ristabilisse un legame di pace con il mondo. Un 'comunicare' che, in realtà, è un descrivere minuziosamente un genocidio assurdo, perverso, che sfugge a qualsiasi confronto e che risulta impossibile da razionalizzare.
Dirk, in piena crisi esistenziale, non vorrebbe mai più rivedere la luce del sole; Dražen, suo malgrado (co)protagonista della mattanza, si autoaccusa per non cadere vittima della depressione; il giudice Romeo, dopo la sentenza, compie una scelta definitiva per poter trascorrere il resto dei suoi giorni senza rimorsi.
Si dispiega quindi una storia corale che alimenta incubi, dubbi morali e dilemmi etici: '...perché abbiamo deciso di metterci in mezzo? [...] mentre noi siamo solo il pubblico di un film del quale non riusciamo ancora a intuire il finale', si domanda Dirk a mente fredda, a eccidio ormai consumato, mentre Dražen si rivela essere l'alter-ego del soldato Dražen Erdemovic, l'unico membro del Decimo Battaglione serbo condannato dopo essersi autoaccusato di avere fucilato più di settanta civili indifesi per non lasciare vedova sua moglie e orfana sua figlia.
E infine Romeo, abulicamente sospeso fra iter razionale e iter irrazionale, che ribalta una sentenza già scritta.
Eppure chi è Romeo, chi sono i giudici, chi siamo noi per assolvere o per condannare? E, senza voler fare moralismi retorici, come è possibile stabilire se una sentenza sia scevra o meno da ogni condizionamento esterno?
E' preferibile un padre di famiglia vivo e pieno di scheletri nel proprio armadio oppure un padre di famiglia in una fossa comune con la coscienza pulita?
L'unica possibilità rimasta è quella di guardare avanti per ritornare a vivere: un vivere attivo, presente e che permetta di tramandare la memoria.
Per non oscurare il futuro.
Per
ritornare
a
vivere.
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Commenti
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Colgo l'occasione per una breve puntualizzazione riguardo l'utilizzo del termine 'stupro': la donna vittima di abusi viene prima catturata e poi stuprata a turno da un gruppo di soldati serbi sino a svenire. Dražen, quasi a contraddirsi, prima scrive di "un corpo vuoto e privo di sensi" che "sotto di me [...] ha vibrazioni improvvise", per poi affermare che "sto stuprando una donna praticamente morta": nel dubbio, e per quanto l'espressione possa risultare impropria, ho preferito adeguarmi al verbo utilizzato dal protagonista stesso.
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Il ricordo del bambino e della pallottola mi ricorda un episodio accaduto a Sarajevo nel 1994, diventato tristemente famoso insieme a quello della coppia mista (di due religioni diverse) che fu ritrovata abbracciata dopo essere stata trucidata.