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La mia unica amica
 
La mia unica amica 2014-08-16 13:49:31 Celeste Boca
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
Opinione inserita da Celeste Boca    16 Agosto, 2014

Bello con qualche riserva

In questo romanzo ho trovato elementi negativi e altri positivi; i secondi però prevalgono sui primi, per cui secondo me il bilancio è in attivo. La trama è piuttosto esile: parla del legame che si instaura fra due bambine di diversa estrazione sociale e provenienza geografica che si trovano, nel secondo dopoguerra, a condividere per un anno scolastico lo stesso banco in una piccola scuola di montagna piemontese e ad affrontare la diffidenza dei bambini indigeni. Soprattutto una delle due è emarginata: Stella, perché veneta e quindi chiamata “mangiapolenta” e perché reagisce male all’ostracismo. L’altra, meno aggressiva e quindi più accettata, è la voce narrante al presente indicativo, l’intera vicenda è vista attraverso i suoi occhi. Tra gli elementi positivi vi è lo stile, perché interpreta perfettamente quello che i manuali per scrittori predicano: mostrare e non descrivere. Dei (pochi) avvenimenti viene messo a fuoco tutto ciò che attrae o colpisce l’attenzione della narratrice, mentre resta sfocato il resto, compresa la sua famiglia, che c’è ma non si vede. La vicenda si svolge prevalentemente nella classe, nei rapporti fra la saggia maestra, chiamata “la nostra regina”, e i compagni, anch’essi senza nome proprio, ma identificati con caratteristiche fisiche o comportamentali: la pertica, la volpe, il serafino, l’anima in pena. Pagina dopo pagina la bambina narrante, mentre analizza i propri sentimenti verso la compagna, le offre la propria amicizia che poco per volta viene accettata. Il loro rapporto si approfondisce, vengono trattati temi fondamentali come l’onestà e la religione e affrontati episodi sgradevoli con i compagni stolidamente ostili.
Qual che mi ha lasciata perplessa, e quindi fa parte degli elementi negativi, è il lessico adottato, assolutamente piacevole se ad utilizzarlo non fosse una bambina delle elementari. Ecco un brano a titolo di esempio: "La notte antartica muove il sipario di interrogativi, lo fa scivolare sulla figura di Stella e avvolge il tre alberi imprigionato dai ghiacci; il fasciame scricchiola in modo sinistro, assediato da banchi imponenti che, scontrandosi, imprimono l'uno contro l'altro una pressione talmente feroce da portare i giganti di vetro a sollevarsi sempre più in verticale, a lanciarsi nel cielo in forma di onde furenti rapprese dal gelo. La tenaglia mortale stringe la chiglia, sale sui fianchi e temo, per la prima volta dall'inizio del viaggio, di dover abbandonare il veliero se la banchisa non accenna a spezzarsi." In questo libro non ci sono gnomi ed elfi, ma coboldi; non gabbiani ma skue. Si arriva all’assurdo di definire le palpebre “coperchi degli occhi”. Altro elemento negativo è l’esagerato dilungarsi su eventi minimi: l’infilarsi sotto le coperte occupa quattro pagine; mentre positivi sono alcuni ricordi dell’autrice che appartengono anche a me, come l’eclissi del 1961 (anch’io fui condotta dalla mia maestra con le mie compagne fuori dalla classe per assistere a quel fenomeno) o “l’inaudita delizia” di succhiare il latte attraverso un grissino. Soprattutto lo stile troppo ricercato mi ha disturbata non poco, lasciandomi incerta fra proseguire o abbandonare la lettura, quando ho incontrato un piccolissimo svarione che mi ha riconciliata col romanzo e mi ha permesso di goderlo - quasi - fino alla fine: la bambina osserva una macchia sul muro e le sue “sfumature marroni”, quando si sa che marrone come colore resta invariato, alla pari di rosa, viola e ciclamino.
Un’altra cosa che non mi è piaciuta, ed ecco il perché di quel quasi, è l’ultimo capitolo, ambientato dopo molti anni, quando la narratrice si imbatte casualmente in una mostra d’arte dell’antica compagna della quale non aveva saputo più nulla: mi è sembrato superfluo, a mio parere la vicenda si chiudeva meglio con la partenza di Stella alla fine dell’anno scolastico.

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