Dettagli Recensione
Il grande luna park della vita
I cavalli delle giostre di Antonio Gentile, vincitore del premio letterario InediTO-Colline di Torino 2013 e il premio Mondolibro di Roma, è un libro che mi ha colpito sin da subito. Adoro il titolo, come mi ha immediatamente attratto la copertina, che sembra esprimere la forza del pensiero, una voglia intensa di respirare, un respiro che vale il riappropriarsi della propria vita.
I cavalli delle giostre racconta dell’infanzia di due fratelli, Letizia e Lorenzo e lo fa con descrizioni profondamente intense sin dalle prima pagine. I protagonisti sono alle prese con i loro sogni e la loro immaginazione che sfida la realtà che fin troppo spesso provoca grande dolore. Nella fiaba nascosta agli occhi degli adulti e dispersa nei boschi nei quali i due fratelli si rifugiano, le loro menti sognano di salvare Bianca e Nerone, i cavalli della giostra che li tiene prigionieri in un luna park abbandonato.
Per chi legge è subito evidente lo stile narrativo, così carico di immagini poetiche accompagnate da un lirismo che raggiunge livelli molto alti e che poche volte cade in contrasto con la descrizione narrativa dei fatti. Il linguaggio è dato dall’inserimento di frasi brevi, l’uso di andare a capo frequentemente definisce la scrittura “a scatti”, veloce, intensa che però non perde profondità. Le parole sono poche ed evocative, attraversate da metafore che permettono alla storia di iniziare come per magia, come un fantastico incantesimo che ci apre le porte del mondo in cui l’autore vuole immergerci.
Non è facile con poche parole riuscire a trasmettere l’essenza delle situazioni e degli stati d’animo ma Antonio Gentile ci riesce subito. Molte scene iniziali sono raccontate dal punto di vista dei bambini ed è attraverso quelle visioni a metà tra il fantastico e il reale che la scrittura non diventa solo poesia o lirismo, ma nasconde una profonda conoscenza dell’animo umano, delle sue ferite, dei suoi dissidi interiori, delusioni, angosce vissute nell’infanzia che scavano nell’animo fino all’età adulta ed è così che si resta scavati, annientati da una presenza oscura che ha preso posto dentro di noi e che non riusciamo a cacciare via.
Nel rapporto tra Letizia e Lorenzo, lei appare più forte e più disposta a trovare un compromesso con l’irruenza e la durezza della realtà che intacca continuamente il loro fragile mondo, soprattutto quello del fratello che sin da subito appare come un solitario ed un incompreso, con grandi difficoltà nell’apprendimento e nel relazionarsi con gli altri. Va male a scuola e la madre gli regala un pianoforte, convinta anche dal medico, che possa essere d’aiuto per farlo venire fuori dal suo isolamento.
Lorenzo suona il piano in modo sorprendentemente naturale, egli non segue nessuno spartito, nessuna regola ma crea una musica che proviene direttamente dal profondo dell’anima. La musica diventa salvezza, un modo per ricongiungersi con il mondo ma la morte alza ancora il suo sipario e i titoli di coda scorrono inesorabili ad imbrattare le pagine bianche dei nostri piccoli protagonisti. Le parole si confondono con i suoni ed esprimono l’arte di ricreare emozioni con poche lettere sparse ed equidistanti l’una dall’altra in una perfetta simmetria che permette a chi legge di cogliere l’incanto delle note in netto contrasto con il dolore fisico lancinante di chi regala quella melodiosa sinfonia.
I protagonisti non sono solo Letizia e Lorenzo, ma anche Matteo e Lucia alle prese con la nascita del loro primo figlio e Cecilia, una musicista che vive una relazione abbastanza disastrata.
Lo stile dell’autore si connota di un sottile compiacimento poetico nell’usare un linguaggio ritmico, cadenzato. La stessa frase può ripetersi più volte come un dolce ed intenso leitmotiv, come i versi di una poesia, come il ritornello carezzevole di un’intima canzone dell’anima. All’autore piace narrare e lo fa in un modo poco convenzionale. Sappiamo poco dei caratteri dei suoi personaggi perché preferisce donarci solo sfumature che cambiano colore continuamente. Non sappiamo chi sono ma sappiamo cosa ci trasmettono a tal punto che di essi ci arriva il succo, il nocciolo della loro anima che sfuma ed evapora attraverso le poche parole per incastrarsi in frasi brevi da cui nascono immagini, riflesso di una profonda interiorità umana.
C’è delicatezza e silenzio, un gusto elegante e raffinato di sentire la vita oltre la ruvida scorza della quotidianità. Momenti reali che appaiono come trasfigurati, sacralizzati ed innalzati oltre la superficie del profano in cui tutti siamo immersi e in cui rischiamo di annegare. Ci sono sapori e odori raccolti in frasi condensate che seppur piccole e rinchiuse in biglie di vetro colorate, profumano di vita, amore e solitudine. La solitudine di un amore spezzato come quello di Cecilia che si sente usata come un’amante qualunque, di cui è solo il corpo ad attrarre mentre la sua anima rimane appesa ad un filo, schiacciata sotto un vestito nero inzuppato di vino “davanti alla tovaglia delle grandi occasioni.”
C’è una capacità straordinaria di rendere tangibili le emozioni come quelle della perdita di un figlio negli occhi di chi è madre e padre, come Lucia e Matteo. Dolore e follia lucida degli attimi perduti e mai vissuti. Immagini scioccanti come quella di una donna che culla tra le braccia un asciugamano raccolto, fingendo che sia il suo bambino di cui non c’è voce, pianto, né vita. La nenia senza volto che sussurrano le labbra di Lucia ad un fantasma mai nato. Anime in pena che tremano di fronte ad una tragedia che tempesta la vita rendendo la speranza una culla vuota senza un domani.
“La pace invade la stanza. Poi va in frantumi, contro quegli esseri in piedi accanto alla culla. Contro quei naufraghi che hanno affrontato la burrasca, ma che alla fine si sono arenati sulla spiaggia. A sognare di ripartire come i relitti di una tempesta.”
Il ritmo delle frasi che si ripetono è incalzante così come le scene vivide, sapientemente raccontate, carnali, immediate. La semplice scelta di un verbo che racconta più di una frase, le pause, gli aggettivi che creano mondi di colori e meraviglie. Ma anche solitudini grigie, bianco e nero di dolore e pozzanghere gonfie di pioggia che diventano uniche isole per scappare dalla delusione.
Molte pagine mi hanno commosso, soprattutto quelle dedicate alla storia tra Matteo e Lucia, la loro sofferenza che si trasforma lentamente in distanza perché la follia è già troppo vicina per contrastarla. C’è una silenziosa e dura dignità in quel dolore e in quella pazzia. Non c’è l’ignoranza di chiedersi il perché sia capitato a me, c’è solo la consapevolezza che da certe tragedie non si torna indietro. Lucia ha perso il suo bambino e neanche quel “Ti amo ancora” può salvarla dalle porte dell’inferno fatto di piedi nudi e vestaglie bianche, di grida e cantilene, per ricordarci che oggi si è pazzi fino a domani. Oggi non ce n’é per nessuno quando si perde un figlio. L’autore è fin troppo bravo ad insinuare tra le sue parole le immagini di una madre che non si riconosce più, di una donna che fugge anche dall’uomo che ama, lontano dai fantasmi morti rinchiusi nell’orrore dei suoi stessi occhi.
Spesso il lettore è impreparato nel trovarsi di fronte campi sterminati di sentimenti, boschi che cullano e proteggono suoni, mani che disegnano nell’aria i movimenti di un timido pianoforte che fa tremare le grida della terra. Ogni elemento naturale come il bosco, l’erba, la pioggia diventano il fulcro e l’alcova di emozioni espresse come valanghe, come discese sconfinate davanti alle quali è impossibile arrestarsi.
La penna dell’autore scava dentro gli uomini e le donne di cui racconta, mettendoli a nudo senza vergogna. Essi tremano, piangono, ridono, sognano, tutto rigorosamente in stile puramente umano. E’ un romanzo intriso di umanità che esalta l’interiorità della felicità e del dolore senza necessariamente chiamarli con quel nome. Sulla sfondo di queste storie che s’intrecciano, in cui sconosciuti si riconoscono e condividono momenti che servono per dare un nuovo senso alla vita, il tempo “è diventato vuoto, scuro, tremendo, su cui si è abbattuta una tempesta, che ha graffiato quei visi con la rabbia e ingrigito quei sorrisi con la nebbia.”
Le percezioni che emergono dalla lettura sono nitide, intime, sembra di sentire lo spirito di queste anime indifese e scoperte da noi che abbiamo sete di emozioni e carezze. L’interiorità è espressa attraverso la natura e l’arte della musica e del disegno, le essenze eterne che sfidano il tempo, che diventano culle di sentimenti che accogliamo come le uniche note che vogliamo ascoltare.
Come la musica creata da Lorenzo è accesa, viva, calda, furiosa così anche la scrittura dell’autore è armonia e melodia di parole e di oltre.
“La vita incompiuta rimane nell’aria. A disegnare percorsi sonori sconosciuti, dal pulviscolo dell’aria, direttamente nella mente. E aspetta che qualcuno vada a liberarla. A lasciarsi cullare dal fluire incontrastato delle note, che s’impregnano nella materia, come gocce d’acqua sulla terra nuda. La mano le afferra e le mette in fila, le incastra in una successione perfetta.”
Questo è quello che Lorenzo fa con la musica e che incarna perfettamente ciò che l’autore crea con le proprie parole.
I cavalli della giostra è pura poesia che trasuda sensualità dei corpi e delle menti di questi esseri mortali e tragicamente umani che solo cercandosi da lontano, si accarezzano attraverso il vento fino ad unirsi in un unico tocco.
C’è un lieto fine per ciascuna di queste storie, non voglio nasconderlo. Storie d’amore e di dolore, perdono e sollievo, partenze e arrivo. Ma cos’è l’amore se non il centro di queste pagine che si raccoglie intorno all’unico concetto veramente importante: “Non siamo nulla se non ci prendiamo cura di qualcuno”.
E allora lottiamo contro l’amore non dato perché esso
“rimane nell’aria. Aspetta che qualcuno vada a liberarlo. L’amore non dato impazzisce nell’aria. Si mette a urlare, a prendere a calci le inferriate della sua prigione, fino a quando non riesce ad uscire. L’amore non dato è sottile come l’aria, s’infila nel petto, rimbomba, non dà tregua, rimbalza nel cervello senza sosta, sospende il ritmo vitale e diffonde l’impalpabile sensazione di morire.”
Antonio Gentile sa come farsi capire, sa essere delicato e profondo, consapevole incantatore della sua giostra di parole. Ogni parola è un cavallo che danza fatto di penna e di carta che sogna la libertà oltre le mura strette di una stanza.
Vorrei dire all’autore che non dimenticherò questo libro che mi ha fatto tremare grazie soltanto alla semplicità dell’emozione che tra queste pagine scivola fuori come la seta che non si trattiene sulla pelle nuda del cuore.
I cavalli delle giostre, legati ad aste, prigionieri del luna park della vita, delle gabbie del mancato perdono e del senso di colpa, sognano la libertà di volare nell’aria.
Il romanzo inizia con un tono delicato e leggero, poi si trasforma in angoscia e abbandono, in rabbia, morte ed impotenza. Ma i cavalli sono sempre lì ad aspettare, sporchi e trafelati in attesa di cambiare. Ne sono passati di titoli di coda ma la giostra prima o poi sarà vuota.