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Che delusione!
Non nascondo che avevo molte aspettative per questo romanzo della Arslan: l’ambientazione un po’ esotica, un genocidio (quello degli armeni) rimasto per troppo tempo sotto silenzio e la vittoria al premio Strega nel 2004 mi avevano appassionato ancor prima di avere per le mani il libro.
Forse mi aspettavo chissà cosa, forse mi ero illuso di trovarmi di fronte a un grande e tragico affresco storico, a una di quelle opere di narrativa che tengono inchiodato alla poltrona il lettore fino all’ultima pagina, con un coinvolgimento emozionale crescente.
E invece non ho trovato nulla di tutto questo e mano a mano che scorrevo le pagine, zeppe di personaggi spesso insignificanti, cresceva in me una noia che mi stizziva.
Non è che la vicenda di cui si parla sia poca cosa, ma è il modo in cui è raccontata. Aleggia soprattutto la freddezza di un rapporto burocratico che nemmeno si trova nei testi di storia e questo non è un saggio storico, ma un romanzo di vita vissuta dei parenti dell’autrice, poiché lei, per fortuna, non è stata direttamente toccata dalla strage turca, avvenuta diversi anni prima che nascesse, peraltro nel nostro paese.
Io sono il primo a sostenere che la presenza dello scrittore deve essere sfumata, nel senso che i suoi personaggi debbono avere, almeno in apparenza, la più ampia autonomia, ma se non c’è anche la più piccola partecipazione emotiva riesce difficile coinvolgere chi legge, che deve avere la certezza di non assistere a una rappresentazione in cui i personaggi si muovono in modo scoordinato, afono e sovente meccanico.
Purtroppo mi sono trascinato all’ultima pagina fra uno sbadiglio e l’altro, chiedendomi ancora una volta che senso ha un premio come lo Strega che fino a quasi tutto il secolo scorso ha saputo riconoscere il giusto merito a opere di valore, ma che da un po’ di tempo incorona d’alloro romanzi banali, non poche volte nemmeno scritti bene.
Per quanto ovvio, almeno secondo il mio metro di giudizio, ne sconsiglio la lettura.