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Dovrei essere fumo
 
Dovrei essere fumo 2014-05-14 19:13:08 AndCor
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AndCor Opinione inserita da AndCor    14 Mag, 2014
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Il mistero del quaderno azzurro dalle righe noir

Emile Riemann è un ebreo francese che varca gli infernali cancelli di Auschwitz nel Settembre del 1942. Sarà affidato immediatamente al 'carico-scarico merci' nei forni crematori e soltanto un autentico miracolo lo vedrà uscire da quel luogo di morte nel Gennaio 1945 da "sopravvissuto che odiava la sua stessa vita", fino a raccogliere i propri ricordi in un memoriale giunto sino ai giorni nostri.
Un memoriale al quale si intreccia, a doppio filo, la storia contemporanea di Alberto Corini, un ex militare introverso e con un armadio stracolmo di scheletri e fantasmi, la cui vita alquanto morigerata subirà un violento scossone non appena riceverà l'incarico di sorvegliare Nils Schwarz, un uomo anziano e potente che ritiene di essere in pericolo di vita.
Il tutto mentre, a fari spenti, agiscono Morgana e Cleo, due donne che guideranno il destino e i passi di Alberto verso l'ingrato compito di fare luce sul misterioso legame che unisce i tre protagonisti appartenenti a generazioni diverse, perchè "La conoscenza dei fatti è spesso la differenza fra vivere e morire.". Senza dimenticare un misterioso quaderno azzurro che tutto dice e tutto cela nel medesimo istante in cui viene aperto.

Il difficile tema della Shoah raccontato attraverso sfumature noir e thriller: è questa la particolarità che Patrick Fogli inserisce nel suo romanzo, un romanzo ancora una volta utile a ricordarci come non si possa e non si debba fare finta di niente quando la nostra mente ripercorre i momenti drammatici della Seconda Guerra Mondiale.
Anche perché è proprio il titolo a cancellare qualsiasi aspettativa ottimistica: un "Dovrei essere fumo" che non lascia spazio a speranze, desideri, sogni e che richiama immediatamente allo sbuffare imperterrito dei camini nei campi di sterminio.

Vedremo, pagina dopo pagina, riemergere un passato tragico, crudele e difficile dal quale, forse, nemmeno la morte riesce a liberare, raccontato secondo uno stile ipotattico e un tono dimesso che lambisce i confini della retorica senza mai oltrepassarli.
Tutto questo mentre l'azione si dispiega attraverso un campo di battaglia che cozza con le massime deontologiche di Dostoevskij e Céline, una clinica-bunker tecnologizzata in ogni angolo visibile e non del suo perimetro, una villa d'altri tempi che nasconde una stanza in cui è severamente proibito entrare e una spiaggia sconfinata dove Alberto tempra anima, corpo e spirito. Aggiungendo qua e là un pizzico di suspense, una figlia invisa al proprio padre, un delitto premeditato che sarà archiviato - con negligenza - per un incidente a fare da contorno nemmeno troppo (ir)rilevante.

Chapeau. Ma uno chapeau a metà, perché, sì, si tratta di un capolavoro, ma di un capolavoro che non esisterebbe se non ci fosse stato il genocidio dell'Olocausto. E, forse, ma togliamo pure il 'forse', avremmo preferito non avere mai avuto a che fare né con questo romanzo né con il massacro degli ebrei.
Ebrei che diventano nefandezza, numeri, automi e che, senza lasciare spazio a qualsiasi emozione, sono stati costretti a caricare nei forni altri ebrei ignari di quello che sarebbe loro successo di lì a breve.
Perchè "Era il nostro lavoro.
Eravamo lì per quello.
Non importava se tra i cadaveri c'era vomito, sangue, escrementi.
Non importava se li avevamo visti vivi pochi istanti prima.
Non importava se tra loro avevamo parenti o amici.
Non importava niente a nessuno.'

Finchè non rimane solamente il 'Silenzio. Netto e improvviso, come il taglio in fondo a questa scena.'

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