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Festa della mamma
In modo del tutto casuale ho letto “L’amore molesto” (“a mia madre” è la dedica di Elena Ferrante) domenica 11 maggio, festa della mamma.
Le considerazioni che svolgerò sono effettuate con il massimo rispetto per un’autrice dallo stile personale e originale. E per un tema – quello delle molestie e della violenza sulle donne – che trova la mia partecipe e assoluta condanna.
Il romanzo, fondamentalmente, mi ha indotto angoscia. La storia viene raccontata in modo onirico e filtrato, mantenendo toni surreali e profilo oscuro.
Delia rovista nel proprio passato per cercare le ragioni del gesto estremo della madre Amalia. In questa ricerca oscilla tra sentimenti alterni (“Se tardava, l’ansia diventava così incontenibile che debordava in tremiti del corpo”), atmosfere sinistre (“Le case non conservano fantasmi ma trattengono gli effetti degli ultimi gesti di vita”) e visioni simboliche (“Amalia era lassù come una farfalla notturna, giovane, forse sui vent’anni, chiusa in una vestaglia verde, con un ventre gonfio da gravidanza avanzata”). Delia ora s’identifica, anche fisicamente, nella genitrice (“Progettavo di bucarmi anch’io l’unghia, per farle capire che era rischioso negarmi quello che non avevo”), ora confligge con lei, in uno stato di contraddizione inquieta: “Ed ero perplessa: non sapevo se quello che andavo scoprendo e raccontandomi, da quando lei non esisteva e non poteva ribattere, mi facesse più orrore o più piacere”.
La vicenda reale emerge in controluce su affondi psicologici e mnestici, attraverso apparizioni e incontri quasi metafisici: ed è la triste partitura ove il genere maschile (rappresentato da un padre pittore e geloso e un fratello, lo zio Filippo, complice di violenze) interpreta la molestia nella forma palese dell’anziano amante di Amalia, Caserta, mentre in modalità sotterranea - in una cantina – agisce un personaggio altrettanto vile. Ricordi e sensazioni riemergono dopo uno squallido incontro sessuale con Polledro, l’uomo del negozio Vossi, antico compagno di giochi d’infanzia e figlio di Caserta.
L’opera è opprimente perché probabilmente l’autrice vuole sortire proprio questo effetto: il ricordo di Delia riaffiora in un processo di autocoscienza tanto incalzante quanto farraginoso, nel concatenarsi di allusioni fosche e cupe che lasciano intuire quale sia la fonte primigenia dell’oppressione (“le oscenità in dialetto… riuscivano a far combaciare nella mia testa suono e senso in modo da materializzare un sesso molesto per il suo realismo aggressivo, gaudente e vischioso”). Il lettore rimane sospeso nella speranza che il rischio incombente venga disinnescato da una rivelazione salvifica. Quando giunge la smentita, è troppo tardi. Anche chi legge si sente macchiato, è stremato dall’ansia, annichilito da un romanzo disseminato di indumenti vecchi, rammendati e sporchi, e si dibatte prostrato tra le ombre di una minaccia concreta: che la povertà più insidiosa non sia quella materiale… per lo meno, non soltanto quella…
Bruno Elpis
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Domenica ho riletto anche “Supplica a mia madre” di Pasolini…
(Tu sei sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…)
… “La madre” di Giuseppe Ungaretti…
(E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro)
… il canto XXXIII del “Paradiso”:
(Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'eterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se' a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.
…)
Indicazioni utili
Commenti
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A me aveva emozionata tanto questo libro, la scrittura della Ferrante mi piace molto.
Peccato !
Mia77
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