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SPLENDORE
La Mazzantini, con questo romanzo, gioca con la tristezza e la malinconia offrendoci un racconto in cui la riflessione è d’obbligo. Lotta contro il pregiudizio sessista e ti costringe ad accompagnarla lungo questo cammino. Con l’intento di creare un forte legame tra il lettore e i personaggi, usa le armi della retorica convenzionale facendone, a mio parere, un uso intensivo. Pur collocando la vicenda in un periodo la cui individuazione ci è consentita solo attraverso riferimenti storici e culturali legati al nord Europa, il ricorso costante a luoghi comuni rischia di far sprofondare, almeno, la prima parte della storia nella banalità. Ed è proprio nella fase iniziale in cui si avverte fatica per la lettura. Non ho compreso perché la Mazzantini abbia sentito la necessità di dipingere la famiglia borghese come atea e anaffattiva e al contrario quella indigente come timorata di Dio e perché, inoltre, caricare sulle spalle di entrambe i personaggi il macigno di una violenza per aprire in loro stessi il dubbio dell’omosessualità.
I protagonisti come è comprensibilmente immaginabile crescono senza avere mai piena consapevolezza di se e senza mai trovare il coraggio di affrontare il necessario per trovarla. Si lasciano portare avanti dagli eventi, indossano la veste dell’arrendevolezza. Si cercheranno per anni senza mai veramente trovarsi, si accontenteranno di rubare l’amore anziché condurlo a qualcosa di più grande. E’ estremamente romantico e altrettanto fatalista mantenere una fedeltà di sentimenti nel tempo e loro lo fanno. Sapere che l’amore è possibile solo quando sono insieme. L’amore, che attraversa i decenni, è scandito dalle rivoluzioni culturali che interessano solo una parte del mondo e non certo l’Italia a cui sono inesorabilmente e solidamente ancorati e da cui subiranno il colpo finale e vedere cosi affossare l’agoniato progetto di vita su cui nessuno dei due ha mai creduto fino in fondo.
Il lettore spera fino all’ultima riga di sapere Guido e Costantino finalmente in pace con se stessi e anche in questo caso la Mazzantini sfrutta la docilità dei caratteri e la caparbietà del condizionamento del mondo esterno.
Se è possibile poter rimproverare all’autrice di aver lasciato una grande amarezza e senso di solitudine non posso smettere di pensare a quanto questa storia sia realistica e verosimilmente vissuta da quanti hanno condotto e ancora conducono una vita di apparenze, quanti cedono senza nemmeno lottare per la propria identità sessuale. Il mondo è discriminante, l’uomo lo è, è impaurito ed è appiattito dagli stereotipi. Sente il bisogno di specificare in una discussione che il collega, l’amico o il vicino di casa è omossessuale, ha necessità del coming out, ha bisogno di essere rassicurato prima di affezionarsi ad un cantante o ad un attore. Avverte a sua volta il pregiudizio per essersi schierato a favore o contro certe evoluzioni.
Ho trovato lo stile molto simile a “Nessuno si salva da solo”, il ritmo incalzante della narrazione, il ricorso ai flash back, l’introspezione e l’autocritica sono tratti comuni ma alla Mazzantini posso perdonare qualsiasi cosa. Scrive delle storie piene di dignitoso dolore, decoroso e annientato orgoglio, sempre singolari per l’uso della retorica e originali per la costruzione dei periodi.
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