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Un bell’esercizio di stile
Premetto che non avevo mai letto nulla di quanto scritto da Isabella Bossi Fedrigotti e così per cominciare ho preso in mano questo romanzo, solleticato anche dal fatto che ha vinto il Premio Campiello.
E’ un’opera, questa, per certi aspetti atipica, stante un’impostazione senz’altro originale, divisa com’è in due parti pressoché uguali come lunghezza e ognuna delle quali porta il nome di una delle due sorelle protagoniste. Nella prima Clara, la minore, ormai avanti con gli anni, parla a se stessa e il suo è un continuo volgersi all’indietro per raccontarsi la vita trascorsa, in quella dimora in cui tuttora abita. Di nobile famiglia asburgica, con i genitori tesi a ripetere la stessa esistenza condotta dai loro avi, la donna si è costretta a una identità consona e conforme alle tradizioni di famiglia, in una acquiescenza e obbedienza che sembrerebbero spontanee, innate; in pratica si è trascinata negli anni senza un impeto di vitalità, ma solo ligia al cliché di un mondo in cui tutto è regolato da consuetudini che tendono a cristallizzare il tempo in un unico lunghissimo istante. Non si è sposata, anche se ha avuto un promesso sposo, ovviamente non di sua libera scelta, ma questi per ben due volte il giorno del matrimonio ha disertato l’altare e lei ha continuato a vivere nell’illusione che, prima o poi, si sarebbe deciso a compiere quel passo, da lei visto come un’istituzione propria di ogni donna di buona famiglia.
Virginia, la maggiore, a cui è dedicata la seconda parte e che parla in prima persona, è invece una ribelle, una apparente anticonformista, che ha un desiderio di libertà che si identifica con la sua ricerca disperata di un amore, anche di convenienza, che la tolga da quel mondo così noioso e ripetitivo. Ora è anche lei nella vecchia casa, con Clara, ad ascoltare silenzi che pesano come macigni Le loro non sono voci, sono urla, ricordi frammentari di un’esistenza che probabilmente vorrebbero non fosse mai stata, entrambe quindi insoddisfatte. Il contrasto latente fra i due caratteri finisce con l’esplodere, così che si ha l’impressione di trovarsi di fronte alla sorella buona e alla sorella cattiva, ma quella buona è l’obbediente Clara e quella cattiva la ribelle Virginia? O forse è il contrario? A una prima lettura è immediata la simpatia per Clara, ma in seconda battuta questa quasi certezza pare incrinarsi, e non sono riuscito a parteggiare in questo conflitto per l’una o per l’altra, anche se trovo in Clara una femminilità tipicamente familiare.
L’età, però, smusserà il dissidio, pur non risolvendo i contrasti di fondo e se anche Virginia lancia quasi un anatema secondo il quale è suo il desiderio di morire per prima, in modo che Clara, definitivamente sola sia costretta a compatirsi, chi ne esce vincitrice è proprio questa, ma non ci può essere soddisfazione in un’esistenza monotona, in una vita vissuta per metà.
Il romanzo è una bella prova di stile, perché non era facile condurre questa contrapposizione non su uno stesso piano, ma su piani separati, in un sottile gioco a cui il lettore piano piano finisce con il partecipare, non come protagonista, ma come giudice. E nulla vieta che le risultanze possano essere diverse da individuo a individuo e sia sempre possibile ribaltare le proprie impressioni, quasi come in un giallo in cui il presunto colpevole e il probabile innocente si confondono.
Considerata però la tematica e anche le particolari sensibilità delle due protagoniste finisce con l’essere un libro che può essere maggiormente apprezzato e compreso da un pubblico femminile e senza che con questo non possa risultare gradito ai maschi, che tuttavia probabilmente non saranno in grado di cogliere sottigliezze peculiari dell’altro sesso.
Da leggere.