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«Cosa succede poi, quando il romanzo finisce»
Il bordo delle cose: quell’esile striscia che divide chi vive ai margini e chi è fermo sull’orlo della voragine. Il limite è tutto in quella preposizione e determina la differenza, neanche troppo sottile, tra una vita e l’esistenza. È qui che la vertigine cede il passo all’inesorabile, ma soltanto ai più puri è dato di saltare.
Il bordo è la IE del liceo Orazio Flacco, i banchi di scuola, le ore di filosofia, l’adolescenza che è ferma su quella linea sottile che precede il volo. Tra i corridoi, durante le ore autogestite, si consumano passioni immaginarie, si inseguono sogni e ci si ritrova senza accorgersene ad aver superato la soglia.
Ai bordi vive Salvatore Scarrone, pluriripetente prima e pluricondannato poi, con la sua barba troppo lunga, con i suoi duri insegnamenti, con le sue scelte, i suoi propositi, le sue utopie di giustizia. Un ragazzino camuffato da adulto, con in testa la voglia di cambiare il mondo e in tasca la necessità di una vita migliore.
Sul bordo vive Enrico Vallesi, gracile e indifeso sognatore di buona famiglia e di una realtà della quale è un incapace attore e ancor più un inesperto astante. Un adolescente che non sa dosare i sottintesi e per il quale le omissioni acquistano significato soltanto quando, dismessi i silenzi, si sono travestite di parole.
Sotto l’egida del caso, nelle sale di una palestra di vita e con gli occhi perennemente rivolti alla strada per non mancare al richiamo della lotta armata, Enrico e Salvatore si scoprono amici ma fraintendono il loro essere “compagni”. Ed è lì, sul «bordo vertiginoso delle cose», che le strade si diramano e la giovinezza perde il suo candore.
Carofiglio tesse la trama dalla fine, da un Enrico quasi cinquantenne, ex bibliotecario, ex scrittore e ora insoddisfatto ghostwriter, che ritorna all’origine, alla sua Bari ormai trasformata dal tempo, al ricordo di un’infanzia vissuta e poi dimenticata e a quel ragazzo lasciato sul ciglio del burrone e ora ritrovato sul fondo di esso. Purtroppo alla suggestione del titolo non segue altrettanto pathos narrativo. Il racconto, infatti, sembra smarrirsi in lunghe e alquanto banali speculazioni pseudofilosofiche e neppure l’inserimento di analessi o l’alternarsi dei punto di vista (tra prima e seconda persona) riescono a riabilitarne le sorti.
Ciò che resta a questa lenta, retorica, noiosa storia è soltanto “il calo vertiginoso delle palpebre”.
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