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Gli sdraiati: figli o padri?
Abbiamo detto addio ai figli in piedi dietro gli striscioni, abbiamo salutato quelli seduti davanti alla TV a guardare telefilm americani, abbiamo congedato quelli semicoricati con i primi giochi arcade tascabili, per fare spazio agli ultimi discendenti della specie filiale: gli sdraiati. Occupanti abusivi fino a data da definirsi del divano di casa, gli sdraiati trascorrono la loro esistenza in posizione supina, incuranti del caos attorno, assorbiti dalle multiple attività virtuali e dai rari impulsi del mondo reale. Questi esseri, a metà strada tra l’umano e l’alieno, mutanti nell’aspetto come nell’indole, non dichiarano guerra ai padri – come i loro progenitori meno remoti – ma si trincerano dietro muri piastrellati di silenzio e carenti di meraviglia.
A guardarli da lontano, loro, l’esercito dei padri smarriti, schiacciati dalla negazione delle colpe e dal soddisfacimento di ogni richiesta di quel volto un tempo familiare e troppo presto diventato estraneo. Attendono intrepidi lo scontro generazionale, lo spargimento di lacrime, urla e punizioni, per poter finalmente andare incontro al loro bambino smarrito. Pur seguendo ogni traccia del nemico, disseminata tra la cucina e il bagno – piatti sporchi, cicche spente, asciugamani zuppi, led accesi, montagne di indumenti maleodoranti –, i padri non dichiarano alcuna guerra ma, ammutinatisi, depongono le armi insieme al loro ruolo di guida e si travestono da amici. È la sete di giustizia a muoverli, ma nel vendicarsi dei figli che furono finiscono per dimenticarsi dei padri che sono.
Michele Serra con “Gli Sdraiati” attua un inatteso ribaltamento di prospettiva perché ad essere posti sotto esame non sono, come potrebbe ingannevolmente suggerire il titolo, quella folta schiera di nuove leve in formato orizzontale, bensì la vecchia guardia, ritta in piedi, che oggi, nella conservazione dell’eterna giovinezza, sembra aver perso spessore. Lo sguardo spietato sulla famiglia moderna si fa ironico sino ad auspicare l’avvento de «La Grande Guerra Finale» e con essa la metaforica ascesa al Colle della Nasca come risarcimento di quanto è stato ingiustamente sottratto a coloro che, nati in ritardo, hanno ereditato il già visto, il già detto, il già vissuto. La fluidità della narrazione – bellissimi sono gli espedienti in climax crescente con i quali il narratore in prima persona cerca di convincere il figlio a compiere insieme l’escursione in montagna – e le divertenti descrizioni dei momenti di vita familiare – come l’incontro con i professori a scuola, la coda al centro commerciale per l’acquisto della felpa di ultimo grido o il dialogo con il tatuatore – forniscono al lettore momenti di riflessione non privi di leggerezza.