Dettagli Recensione
Non siamo morti stanotte.
Questo libro è un'opera d'arte, non lo dico mai e questa volta non ho paura a dirlo. E' fantastico, una fotografia fluida dell'uomo, della donna, dell'umanità e di tutti i sentimenti che ci stanno in mezzo. E' vero, è crudo, è dolce, è la vita.
Parla di Gemma, giovane 29enne, in viaggio a Sarajevo per una ricerca universitaria, durante le olimpiadi invernali del 1984, quando la città era pulita, in festa, una scoperta. E poi parla di Gemma vent'anni dopo, che torna nella stessa città, ora con un figlio e un peso nel cuore che Sarajevo le porta a galla, con le sue rovine e il dolore che traspira dai muri dilaniati e dalle rose in memoria delle vittime. Della sua guerra, che lei stessa ha vissuto lì. Anche lei vittima. Vittime della guerra che dal '92 al '96 ha spezzato la Bosnia e i Sarajeviti, una guerra che i nostri genitori guardavano dall'altra parte del mare, in tv; una guerra vicina e per questo curiosa, una guerra che alla Mazzantini è rimasta tanto dentro da sentire il bisogno di ridarle vita con questo libro. L'autrice ha creato personaggi veri, vivi, che potremmo incontrare ogni giorno, che pensiamo di conoscere, a cui ci affezioniamo, che vorremmo coccolare e consolare. Aiutare. Per questo ci rende partecipi di tutto. Non ci sono cattivi o buoni, solo vittime e carnefici. Ma ogni personaggio si fa odiare e voler bene a proprio modo.
Gemma che si innamora di Diego, la loro vita insieme, una coppia fantastica, di quelle su cui scommetteresti tutto, perché sono fatti l'uno per l'altro e niente può separarli.
"Eravamo una di quelle coppie strampalate, su cui nessuno avrebbe scommesso un’unghia. Di quelle destinate a una manciata di mesi superbi e poi ad afflosciarsi di botto. Eravamo così diversi. Lui dinoccolato, io sempre un po’ rigida, con le borse sotto gli occhi, il cappottino austero. Invece i mesi passavano, le nostre mani erano sempre l’una nell'altra per strada, i nostri corpi dormivano vicini senza darsi noia come due feti nello stesso sacco."
Poi i figli che non vengono, il dolore e la frustrazione, la ricerca infinita. "I figli che devono venire vengono" dice Diego. Ed è vero, ma la sterilità assomiglia esattamente alla stessa guerra bosniaca, solo che i cecchini sparano dall'interno e feriscono a morte.
La guerra che scoppia nella città che li ha visti nascere, il desiderio di non abbandonarla a sé stessa, il dolore di rimanere, ma ancora di più di andarsene. E Aska, il figlio della guerra, le priorità, la vita che si fa largo tra la morte, una dolcezza vista attraverso il disumano... e soprattutto un finale che ti risarcisce.
Ti risarcisce di tutte le lacrime versate prima - che non sono poche -, tutto quel pensare alla crudeltà e all'ingiustizia che si scioglie in un dolce-amaro che ti avvolge.
Perché questo non è un libro che puoi chiudere e lasciare sul comodino per passare oltre. A metà del libro ho dovuto chiudere e respirare per un po', il libro ti trascina troppo dentro la storia e finisci per soffrirne anche tu. E comunque continui a pensarci. A me è nata la voglia di sapere, di informarmi, di sapere di più di questa guerra, del fotografo di pozzanghere - che esiste davvero, e soprattutto
esistono le sue fantastiche fotografie -, delle giovani dal futuro spezzato...
"La gente camminava tranquilla, quella mattina, donne con i foulard, uomini con la cravatta. Bisognava mostrare il pugno chiuso con il medio fuori a quelli lassù, al club delle tre dita cetniche. E' un messaggio per loro, infilatevi nel culo i vostri fucili di precisione. Quei foulard, quei passi ordinati, stavano lì a dire quello. A testimoniare che la vita continuava. [...] Sul muro sotto casa era apparsa una scritta: NON SIAMO MORTI STANOTTE."
E le parole, le frasi... Frasi che sono poesia, frasi forte ma dolci, che mi farei tatuare su tutto il corpo perché rendono davvero. Migliore, non lo so, ma rendono. E' un libro che mi ha preso e non credo mi lascerà mai andare.Lo consiglio a tutti, con un po' di pazienza. A me fa ancora battere il cuore.
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Ancora complimenti
Raffaella
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