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La faccia nascosta del potere
Un serial-killer di magistrati.
Ed un funzionario di polizia, l'ispettore Rogas, metodico e colto (per quest'ultima ragione guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi), che riceve l'incarico di indagare sulla catena di omicidi commessi in località molto lontane tra loro (in un paese non menzionato dall'autore, ma che potrebbe tranquillamente essere l'Italia).
Ben presto l'ispettore si forma una sua idea sul motivo di quegli omicidi: la vendetta.
Il ritratto che costruisce è quello di un vendicatore fermamente intenzionato a pareggiare il suo personale conto con la giustizia (in quanto ne è stato vittima innocente anni prima, tirato dentro l'ingranaggio del sistema giudiziario e ingiustamente condannato). Rogas riesce persino a dargli un nome, ma non a prenderlo prima che costui fugga dalla sua abitazione.
La tesi dell'ispettore, però, contrasta con quella dei suoi superiori, e delle diverse istituzioni che attendono una “degna” chiusura del caso, ammettendo un'unica pista investigativa: quella che guarda agli ambienti rivoluzionari, ovvero a quei gruppuscoli “deviati” (e formati in prevalenza da giovani) che agiscono per un movente politico.
Il contrasto tra queste due diverse visioni si compone in un punto preciso del romanzo, quello in cui l'ispettore Rogas si fa ricevere dal Presidente della Corte Suprema, il giudice Riches. Gli confida di ritenerlo uno dei prossimi bersagli dell'assassino e, alla sua richiesta di spiegazioni, espone la propria personale teoria. E' qui che prende corpo uno dei brani più conosciuti dell'intera produzione di Sciascia: il giudice, frustrando le convinzioni dell'investigatore, gli spiega perché non può esistere l'errore giudiziario, come esso sia una contraddizione in termini.
Dall'esito di tale incontro prenderà le mosse l'ultima parte del libro, e il suo drammatico (e coerente) finale.
Al centro di questo romanzo breve lo scrittore siciliano mette il potere, onnipresente eppure inafferrabile, in grado di schiacciare qualunque resistenza e di fabbricare la “verità” che serve a perpetuare la sua conservazione.
La conclusione (anche se in realtà è dato scorgerne più d'una) è davvero inquietante: il potere, come entità astratta, è più forte dei suoi stessi detentori, che hanno invece corpi e identità concrete in un dato momento storico. Tant'è vero che gli uomini del potere che si allontanano dal suo “corso” – e che sino a quel momento avevano contribuito ad alimentarlo – vengono per ciò solo inesorabilmente schiacciati.
Se lo stile del libro sembra meno calibrato rispetto a quello de “Il giorno della civetta”, tuttavia il contenuto può anche apparire più “alto”, in virtù di una maggiore complessità dell'idea. Lì si ragionava della mentalità mafiosa come espressione di potere; qui la mafia è una delle facce del “contesto” (parola ambigua, che rende il tutto ancora più inquietante e viene usata una sola volta da Sciascia, in un preciso punto del romanzo).
Non c'è dubbio che si sia di fronte ad un libro da leggere e interpretare, per poi tenerlo a mente nel suo essere insieme cronaca e metafora, presagio e sfida, avviso e invito...
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Commenti
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L'altro giorno sono uscito dalla libreria con quattro libri di Sciascia (due già letti e recensiti su questo sito)... Non mi capita quasi mai di portare via più di un libro dello stesso autore. In questo scrittore siciliano ho una sorta di "cieca" fiducia, non solo per la sua bravura, ma anche per le tematiche che tratta... me le sento "cucite addosso", è anche difficile da spiegare...
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