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Dalla Sicilia all'Italia
Leggere Sciascia è restare impressionati dalla sua capacità “profetica”.
Il “giorno della civetta” – volendo riassumerlo all'osso – è la storia di un confronto (all'epoca) impari: da un lato lo Stato, impersonato dal capitano Bellodi, dall'altra l'antistato, nelle sembianze del navigato capomafia Mariano Arena. Ciò fin dalla scena iniziale, quando il costruttore Colasberna viene “fulminato” da un colpo di pistola nella piazza del paesino (in una scena che ha il sapore del ralenty cinematografico): il capitano dei Carabinieri è convinto da subito che il delitto abbia connotazione mafiosa; i criminali, al contrario, si concentrano sulla necessità di farlo apparire tutto fuorché un delitto di mafia.
Le conclusioni del libro sono queste: la mafia esiste, nonostante il tentativo di una parte del paese di asserire l'esatto contrario; rappresentanti di una tale idea sono inseriti persino nelle massime istituzioni italiane, e da lì tentano di disinnescare la lotta alla criminalità organizzata, con la quale mantengono uno stretto rapporto, quando non vi si identificano.
Oggi queste conclusioni ci appaiono scontate, se non superate.
Ma il libro è del 1960, quando la mafia era ritenuta pura invenzione di menti poco lucide, chissà per quale fine secondario! Ci sono voluti più di venticinque anni da allora, la fermezza e le capacità professionali di Falcone e Borsellino, le rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, per mettere un punto fermo a quello che allora risultava praticamente indimostrato.
Leggere Sciascia è lasciarsi portare dalla sua stupefacente costruzione dei personaggi.
Lo scrittore siciliano edifica la sua opera più nota opponendo, alla impermeabile e “composta” omertà mafiosa, la figura del biondo capitano parmense Bellodi, con la sua tranquilla e sistematica capacità di smontare le doti dissimulatorie dei “picciotti” che gli si presentano davanti. E svela come un servitore dello Stato e un boss mafioso possano sottilmente battagliare con la sola arma del linguaggio (di altissimo livello il dialogo in caserma... tenendo presente che, come dice Sciascia, “Le parole non sono come i cani, che puoi fischiare e richiamarli”).
Mentre le trame occulte si giocano nelle figure dei due anonimi personaggi che compaiono “a intermittenza” nel corso del romanzo, quando si incontrano per le strade di Roma: da lì manifestano il fastidio per l'operato del capitano dei Carabinieri e adottano le “contromisure di Stato” per derubricare un delitto mafioso a questione di corna.
Leggere Sciascia è prendere coscienza di un modello di stile letterario.
Difficile pensare ad un altro scrittore le cui pagine siano tanto pregnanti a fronte di una scrittura così essenziale. Si leggono dalle cento alle centoventi pagine (a tanto assomma la mole dei singoli romanzi dello scrittore siciliano) con la sensazione, alla fine, di aver bisogno di riconsiderare tutto ciò che si è appena terminato. Ed è un effetto voluto il “costringere” a ripensare alle sfaccettature della vicenda, anche a quelle che potevano sembrare già “digerite” parecchie pagine prima.
Leggere Sciascia è leggere un autore che ha una certa familiarità con la parola “capolavoro”.
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Commenti
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Sciascia è da studiare nelle scuole oltre che per gli argomenti anche per lo stile.
; ))
La verità è che siete tutti fan di Sciascia (e non so come si fa a non esserlo). :)
http://www.qlibri.it/community/5120gracy/photos/album?albumid=538
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