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Una vita movimentata
Per chi è abituato a scrivere poesie il passaggio alla narrativa rappresenta sempre un valico arduo da un campo in cui si è acquisita esperienza a un altro che è tutto nuovo e sconosciuto. Potete ben capire che un conto è metter giù dei versi che fotografano un’emozione, un sentimento, mentre altra cosa è svolgere un tema in più pagine, anzi in molte pagine. Credo che Cristina Bove, pertanto, abbia fatto una scelta giusta, non scrivendo un romanzo, ma quella che può essere definita un’autobiografia fra il passato e l’oggi, quest’ultimo destinato per lo più a riflessioni di carattere generale. Il continuo ripescare fatti ed episodi della propria esistenza, come il ritornare all’oggi, se all’inizio disorienta un po’, alla fine si apprezza perché in questo modo si evitano quelle esposizioni cronologicamente successive che tendono inevitabilmente a tediare il lettore. Direi che l’autrice ha un po’ ripercorso il metodo utilizzato da Stendhal per il suo Vita di Herny Brulard, che, guarda caso, è un’altra autobiografia.
Certo, a leggere queste pagine, mi accorgo che la mia vita è stata tutto sommato lineare, e non certo discontinua, quasi avventurosa come quella di Cristina Bove, che volentieri si confessa, raccontando certi fatti che altri magari preferirebbero tacere, ma che a ragion veduta sono stati determinanti nell’iter vitale, come un certo volo da un quarto piano, risoltosi miracolosamente con serie fratture, poi sanate; non sanato invece è stato il motivo di questa caduta, fatta passare dai familiari come un’imprudenza. Va bene, era giovane e da giovani si commettono sciocchezze, però episodio dopo episodio mi sembra di riscontrare un problema di fondo, causato dall’assenza della figura paterna (il padre c’era, ma se n’andò di casa quando lei era ancora piccola). Che volete mai, ognuno ha le sue teorie, ma credo che quell’abbandono abbia segnato per sempre, nel bene e nel male, la vita dell’autrice. E poi il collegio con le camerate fredde, l’impossibilità, per difficoltà economiche, di realizzarsi scolasticamente sono tutte cose che lasciano inevitabili strascichi; da, qui, forse un remoto rigurgito di insoddisfazione che né un matrimonio, né la nascita dei figli sono riusciti a sanare. Solo l’arte, la passione di leggere, di scrivere, di dipingere, insomma di concretizzare in forme plastiche o comunque accessibili quella inconscia rabbia che si porta dentro, hanno potuto generare un’oasi di appagamento, tanto che mi viene da dire che senza la scrittura non avremmo Cristina Bove, cioè senza di essa si sarebbe lasciata andare aggravando gli acciacchi, sì che è lecito pensare che lo scrivere sia per lei come il respirare, una condizione unica e indispensabile per continuare a vivere.
Personalità indubbiamente complessa, che si riflette anche nella sua produzione poetica, eventi ed accadimenti ( in cui si spera ci sia almeno un pizzico di fantasia), ci vengono sciorinati quasi come fossero normali, e invece, per lo più, non lo sono.
C’è in tutto questo, come nella vita di ognuno di noi, un disegno sconosciuto, e il raccontarci finisce con il diventare la ricerca di questo programma. Non credo che Cristina Bove sia riuscita a scoprire l’arcano, ma in cambio, per farlo, ci delizia con questa sua autobiografia dal linguaggio semplice, ma immediato, uno specchio in cui si riflettono dieci, cento, mille Cristina, sempre la stessa e pur così diversa, a seconda dell’angolo di osservazione.
Ma in fondo chi, pur credendosi unico, a guardare dentro di sé non trova tante e tali sfaccettature che prima non avrebbe immaginato?
Ecco, fra penne e pennini, fra carta e inchiostro, rivoltato il suo passato, Cristina Bove, senza ipotecare un avvenire, lascia un segno nel presente, ripercorrendo il suo passato.
Da leggere, mi sembra più che chiaro.