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Maldicenza di provincia
Primo romanzo di Sacha Naspini, L’ingrato già rivela le indubbie qualità di questo giovane autore e che potrei sintetizzare in una scrittura matura, ma mai greve.
In effetti in questo libro si avvertono alcune linee base che poi si ritrovano, perfezionate e in piena sinergia, ne I sassi.
L’analisi psicologica approfondita, l’ambientazione definita nei suoi aspetti essenziali, quasi delle indicazioni, e una trama senza intoppi sono caratteristiche che appaiono proprie di Naspini e quindi non dovute al caso, delle vere e proprie fondamenta su cui contare per dare vita a nuove situazioni, a vicende che non sono mai ripetitive.
I pregi e i difetti della provincia (nel caso specifico un paesino toscano) sono il pretesto per una spietata denuncia della maldicenza, di questo vizio sottile, latente anche in persone insospettabili e che appare come una valvola di sfogo per frustrazioni sempre presenti.
Certo il maestro Calamaio, il personaggio principale, ha anche le sue stranezze, come quella di spiare le bambine quando vanno in bagno, ma quest’anomalia, che si limita a una semplice osservazione, appare quasi insignificante rispetto all’acredine, alla storia del tutto inventata che sorge in questo paesino e che attecchisce in modo estremamente rapido.
E non è che la vox populi lo condanni per questo spirito guardone, ma per qualche cosa di immorale che gli stessi creatori ignorano e che nasce come frutto di fantasticherie che si dilatano di bocca in bocca, come a dire che uno starnuto nel giro di tre vie diventa un boato.
No, a Calamaio gli si rinfaccia l’ingratitudine, non gli si perdona che lui, accolto in paese proveniente dalla città, non abbia accettato le regole ferree che regnano sovrane nel tempo e che rendono una comunità al tempo stesso carnefice e vittima di se stessa.
Per dirla più chiaramente, Calamaio ha violato i confini sacri non tanto dell’etico, ma del conformismo, delitto senza possibilità di appello in una società chiusa che può solo accettare o respingere.
Fatto il primo passo, la maldicenza si amplifica, trae forza dalla sua stessa debolezza di iniziare da una bolla di sapone, perché è evidente che si viene a creare un inconscio legame fra chi per primo ha cominciato e l’ultimo che chiude e riapre il cerchio, in una sorta di girotondo senza fine.
L’individuo preso di mira non ha più cittadinanza e vive un’emarginazione che è fatta di forzata solitudine e di dispetti ricorrenti, quasi fosse considerato un corpo estraneo da cui liberarsi.
Il pregio dell’opera sta proprio nella capacità che ha avuto Sacha Naspini di rappresentare questa realtà, che non è un caso limite, ma che invero è frequente, con quella distorta volontà di trovare a tutti i costi un capro espiatorio su cui sfogare le proprie pulsioni represse.