Dettagli Recensione
la terra del sacerdote
“La terra del Sacerdote” di Paolo Piccirillo. Una giovane donna scappa dalla gabbia che condivideva con gli animali, segregata da due vecchi. Quello che la aspetta è terra, la terra molisana. Buio, freddo e terra. Corre, si ferisce, in silenzio partorisce, corre ancora, si accascia. Ha raggiunto il terreno confinante, la terra del Sacerdote, di proprietà di un vecchio, Agapito, che chiamano sacerdote ma che sacerdote non è, o non è più. Flori, così si chiama la donna, è una clandestina che viene dall’Ucraina che è prigioniera per saldare il “debito dell’entrata” in Italia, nella terra promessa, oggetto del desiderio di una vita più agiata, terra che invece l’ha resa schiava. La storia è avvincente, ricca di colpi di scena, di suspence, di emozioni forti. La struttura è fantastica. Adoro i capitoli brevi, appena arrivi alla fine ti viene voglia di leggere il successivo. Il romanzo ha un’architettura fatta di continui sbalzi temporali, si parte dall’oggi, si va a ieri, si torna all’oggi, si va all’altro ieri. Questa cronologia sbalzata è, secondo me, un punto di forza della storia che tiene viva l’attenzione del lettore e lo porta a scoprire mano a mano il perché della situazione attuale, la durezza di alcuni personaggi, l’umanità che si nasconde in alcuni e la cattiveria che si palesa in altri. La scrittura è essenziale, senza fronzoli, asciutta. Ogni frase seppur ridotta all'osso genera sensazioni a catena, ogni frase è amplificata. Non dico nulla su come evolve la storia, se la ragazza capitata nella terra del Sacerdote lì troverà il ponte verso la salvezza o il precipizio verso il baratro. Scrivo solo delle sensazioni che mi ha lasciato questa che è una delle migliori letture di questo anno. Il racconto è costellato da tante micro storie, fantastiche come i sogni di Graziano sugli essere umani senza gambe, aneddotiche come l’origine del soprannome di Maurizio Baff’ de Can’,il matto del paese che ogni giorno parte da un punto del confine del paese e arriva al confine opposto camminando curvo con un’immaginaria croce sulle spalle. Il Molise di Piccirillo è una terra arida che non dà frutti, gli uomini che la coltivano hanno il cuore indurito dalla vita, forse più duro della terra stessa e difficile da scalfire. L’albero, presente sempre nel racconto, è inizialmente marcio, i suoi rami non danno frutti, ma piano piano mentre tutto intorno si trasforma in inferno per le azioni degli uomini, grazie ad intervento di innesto, inizia a dare frutti, non più arance ma mandaranci; qualcosa cambia anche in Agapito, una coscienza che forse pensava di non avere, perché dall’intersecarsi di anime può nascere ancora qualcosa di buono. Le molte frasi in dialetto molisano e in lingua tedesca non sono tradotte, ma il senso si intuisce e danno un’immagine più reale dei colloqui scarni, asciutti tra i personaggi. Quelli che vivono qui sono uomini di poche parole, i rapporti tra amici sono cementati da scambi di favore, i rapporti tra moglie e marito da abitudine, da silenzio. Mentre leggo, il nero dell’inchiostro si trasforma automaticamente in visione, in trasposizione cinematografica e spero che questo accada, come spero, in effetti ne sono certa, che questo romanzo avrà il successo che merita. Certe menti letterarie come quella di Paolo Piccirillo (ha solo 25 anni!!!), hanno diritto alla giusta lode. Questa è una storia che mi porterò dentro.
"Non è mai il ramo, il problema sono sempre le radici. Sono loro ad essere malate, ma non hanno il coraggio di uscire fuori dalla terra e gridarlo a tutti; le radici sono codarde, potrebbero salvare la vita di milioni di rami. Hanno sulla coscienza millenni di alberi e di frutti marciti, ammazzati."