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Il lavoro come valore
È ben strana la vita: benché le eccelse qualità di Primo Levi come scrittore fossero chiare, l’autore torinese, per sua natura schivo e in quanto tale alieno dall’allacciare rapporti stretti con gli intellettuali della sua epoca e comunque dal mettersi in mostra, fu considerato un grande della letteratura con un notevole ritardo, e nonostante fossero già ben conosciute le sue opere migliori, frutto dell’esperienza concentrazionaria (Se questo è un uomo e La tregua). Al riguardo basti considerare che, nel corso di una interessante conversazione con Ferdinando Camon, è emerso che ci volle un suo articolo sul supplemento letterario del quotidiano “La stampa” affinché il grande storico della letteratura Natalino Sapegno si ricordasse di inserire il suo nome nella 44esima edizione del suo manuale di storia letteraria, all’epoca il più conosciuto e studiato sia ai licei che nelle università. Così anche Primo Levi ebbe il suo nome su questo testo, ma con una dizione che riparava al precedente errore : “E’ forse il più grande scrittore italiano del secolo.”.
È quindi con un certo stupore che ho notato che il primo libro di esclusiva inventiva di Levi, cioè La chiave a stella, ha ottenuto il riconoscimento di quello che è forse il più importante premio italiano, cioè Lo Strega. Premetto, a scanso di equivoci, che questo romanzo, insolitamente ottimista, non è cosa da poco, anzi è di eccellente livello, ma senz’altro inferiore a Se questo è un uomo e a La tregua. Perché questi non siano stati premiati rimane per me un mistero, lo stesso per il quale può accadere che un grande scrittore venga ignorato da critica e pubblico.
Penso, però, che dopo questo lungo preambolo, che ritengo doveroso, sia giusto passare a parlare di questo inusuale romanzo.
In questi tempi di crisi economica, con un livello di disoccupazione crescente e drammatico, La chiave a stella è più che mai di attualità. Il testo propone infatti l’alto valore del lavoro perché, per dirla con l’autore, “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.”; quindi non solo il lavoro consente all’uomo di trarre i proventi necessari per il suo sostentamento e di quello della sua famiglia, ma dona piacere a chi lo esegue, un piacere in verità privilegio di pochi, come anche evidenziato.
Qui si coglie in modo esemplare la figura dell’homo faber, di colui che è artefice del proprio lavoro e non a caso il protagonista Libertino Faussone, detto Tino, è un operaio montatore in proprio, che gira per il mondo, conoscendo altri paesi, altre abitudini, e anche correndo dei pericoli. In uno di questi viaggi incontra in albergo Primo Levi e trovando nello scrittore torinese un ascoltatore attento narra diversi episodi della sua vita, sempre legati all’attività svolta. Il linguaggio dei due è assai diverso: semplice, rozzo, elementare quello di Faussone, colto e raffinato quello di Levi, ma entrambi si capiscono a meraviglia, perché amano il loro lavoro e sono convinti che non ci sia nulla di meglio al mondo per vivere in pace con se stessi.
Sono pagine molto piacevoli da leggere, sovente venate da ironia, e poi questo Faussone riesce naturalmente simpatico, con quel suo linguaggio ben poco colto, ma efficace, con una schietta sincerità, propria di chi sa di non dover dimostrare nulla, perché lui, nel suo campo, è uno dei migliori, capace non solo di usare le mani, ma anche la testa, sovente coordinando il lavoro di molti altri operai, insomma è quel che può dirsi un uomo realizzato e soddisfatto.
Il messaggio di Levi è chiaro: il lavoro in generale è importante e quello manuale, ben svolto, lo è ancor di più, e questo non solo in un ottica della produzione, ma in una visione più globale di una umanità che alacremente travaglia per un proprio accrescimento interiore, una realizzazione di se stessi, qualunque sia il livello di responsabilità.
E’ un’idea forse un po’ utopistica, può anche richiamare certe tendenze in auge nell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin, ma quel che è certo è che il lavoro, utile a una collettività, lo è in quanto di utilità per ogni singolo componente, soddisfatto per averlo ben eseguito.
Personalmente, pur concordando in buona parte con il pensiero di Levi, ritengo che il lavoro possa rivestire quella componente fondante della vita degli uomini solo se cambia il modello di società, cioè se si perviene a un concetto di comunità più ampio ed evoluto, non tanto rispondente alle teorie marxiste, bensì come realizzazione del pensiero sociale cristiano
La chiave a stella è un romanzo di sicuro interesse e che, senza per questo considerarlo un capolavoro, risulta di eccellente qualità, tanto che la lettura è senz’altro raccomandabile.