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Un titolo e un libro a metà tra "Cent'anni di soli
“ Candida parlava e faceva andare l'uncinetto senza nemmeno guardare le maglie, perché ormai non vedeva quasi più e aveva le mani deformate dall'artrosi. Solo l'esperienza suppliva a tutto.
Fin dalla mattina, quando entrava nella camera di Gioia, iniziava a raccontare, come quella volta che da piccola le avevano tolto le tonsille. Lo zio Mimmo e le parolacce che aveva detto sull'altare, la nonna Concetta e quant'era buona coi poveri, quella signora di Milano, i barili di don Francesco ... Storie che Gioia aveva sentito migliaia di volte, ma in quegli anni non ci aveva più pensato. Adesso, riascoltandole, le sembrava che si mettessero tutte insieme, come i disegni di quei centrini che all'inizio erano solo maglie piene e vuote, archi di catenelle, rombi e colonnine, ma poi a lavoro ultimato formavano un disegno più grande che non significava proprio niente, se non tutto il tempo e l'amore che erano stati messi per farlo”.
E’ racchiuso in queste poche frasi il senso del romanzo di Mariolina Venezia, classe 1961, che nel 2007 ha vinto il premio Campiello: Mille anni che sto qui, ed. Einaudi.
Nessuno può prescindere dalla propria famiglia, che come un grande, unico organismo, vive attraverso i singoli componenti, fa circolare il sangue di generazione in generazione mutando predisposizioni individuali attraverso evoluzioni e ripensamenti, ritrovandosi unito nelle tragedie e nelle feste memorabili.
Amore, vita, morte, tradimenti, alterne fortune economiche, rancori e ribellioni che sembrano non seguire un filo logico, ma alla fine si ricompongono in un unico, epico disegno.
Mi ha fatto venire in mente la teoria delle Costellazioni familiari di Bert Hellinger, secondo la quale eventi come malattie o fobie altrimenti inspiegabili possono essere ricollegati al destino di chi ci ha preceduto.
Ognuno dei componenti di questa saga familiare di cinque generazioni sembra essere diverso dagli altri, eppure i riferimenti culturali sono sempre collegati agli avi, alle tradizioni e ai paesaggi lucani che la scrittrice sa descrivere così bene, utilizzando spesso il dialetto.
Forse lei stessa, scrittrice e sceneggiatrice nata e Matera, trasferitasi a Roma presumibilmente per lavoro, ha sentito a un certo punto il bisogno di riappropriarsi della sua identità più profonda, scavando nei propri ricordi e nei luoghi che l’hanno vista nascere.
Ho visto Mariolina Venezia alla presentazione del suo ultimo libro e i suoi occhi scuri e antichi, di una mobilità esasperata, vagavano incessantemente sul pubblico costituito prevalentemente dai membri di un’associazione culturale lucana. Tutti davano l’impressione di avere un fortissimo senso di appartenenza, e, indifferenti alla sua ultima fatica letteraria, insistevano per conoscere nuovi particolari riguardanti “Mille anni che sto qui”.
Lei rispondeva, esauriente e collaborativa, consapevole di essere “una di loro”.
Certo questo libro non è “Cent’anni di solitudine”,ma può essere considerato un buon surrogato nostrano. Ho fatto fatica ad affezionarmi ai personaggi, e a volte mi sono persa nei passaggi generazionali, ma alla fine questa soria mi ha toccato qualche corda, e mi trovo qui a scriverne.