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Il dono del cuore
L’idea di questo romanzo non è nuova, un racconto a due voci che si dipana lungo un certo arco di tempo, tratteggiando due vite diverse e a volte opposte nella loro complessità, accomunate dal legame più profondo che esista: quello di sangue, le protagoniste sono madre e figlia. Evidentemente il doppio registro è una formula che piace all’ autrice, che già in un suo precedente libro ( “Ma le stelle quante sono”), anche se in modo diverso, l’aveva utilizzata.
L’espediente classico del ritrovamento, più o meno casuale, di una serie di appunti privatissimi appartenenti alla figlia, da parte della madre Giulia, apre il romanzo. Forse l’autrice intendeva portare avanti in parallelo le due storie, ma armeggiando con tempi e personaggi, sembra che la trama le prenda la mano, mettendo in ombra la figura della figlia Mia. Venendo meno, quindi, alle intenzioni iniziali, la storia diventa principalmente quella di Giulia, la madre, perché dopo i primi passaggi del libro, la vita di Mia (che alla fine occupa solo alcune pagine), appare come uno sbiadito e frammentario coacervo di episodi , che concorrono a delineare lo stereotipo della ragazza ribelle, notturna e sregolata, purtroppo abbastanza scontato. Dopo la primissima parte del romanzo, quindi, Giulia strappa di mano la penna all’autrice, decidendo di raccontare la sua storia di ragazza borghese anni sessanta (forse i tempi non collimano perfettamente nel procedere degli avvenimenti), le sue sofferenze familiari, i suoi incubi domestici in un mondo di donne matrioske in cui una “mangia “ l’altra, in un continuo furto di affetti, prigioniere di un tempo perbenista e falso in cui le donne languono in attesa di un principe-maschio-guida, sognato e idealizzato, che regolarmente si rivela il più meschino e fragile degli esseri. Nemmeno una scelta rivoluzionaria per i tempi, come quella di fare il medico, sembra affrancare Giulia dalla sua condizione di sudditanza dall’universo maschile (rappresentata anche dal suo rapporto con il primario dell’ospedale in cui lavora). Mentre la giovane Mia trascorre il suo tempo adolescenziale tra corse in motorino e storie di letto senza futuro, respingendo la tenerezza dell’unico vero amore, Giulia racconta la sua vita, fino ad arrivare ai due incontri importanti che ne cambieranno il corso: quello con una strana suora peruviana (il personaggio più originale, le pagine a lei dedicate mi sono sembrate le migliori) e quello con Miguel, passione estrema, trasgressiva, proibita, che riscatta Giulia, premiando la sua infinita attesa. Giulia diventa Jubia: “pioggia” nella lingua di Miguel “…essere pioggia non è facile, devi concederti solo alle terre che hanno bisogno di te, altrimenti allaghi”. Jubia è il pericolo, il peccato a cui Giulia non sa rinunciare, che rischia di bruciarla per sempre, sottraendola al suo immoto mondo di certezze, ma regalandole quella dolcezza sognata per tutta una vita. E’ questo il dono intenso che la madre lascia alla figlia e che scioglie i nodi del titolo del romanzo. Lo stile di scrittura della Carcasi, forte, ridondante, ricchissimo di citazioni e metafore, è il più adatto a raccontare questa storia al femminile, che comunque al di là dei limiti del romanzo, forse un po’ al di sopra delle possibilità dell’autrice, ancora così giovane, ammalia e trascina nel gorgo più profondo delle emozioni.
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