Dettagli Recensione
Gli instancabili cercatori di senso
La guerra vista con gli occhi del bambino, filtrata da un immaginario differente e meno consapevole, è qualcosa che è già stato presentato ai vasti pubblici in varie e numerose vesti. Un tentativo di reinterpretazione di questo genere di lettura non mi sembra al momento un affare da poco. Mi pare addirittura un tentativo che mostra molto coraggio, visto il panorama già ricco di esempi. E credo di poter gioiosamente affermare che Andrea Molesini, con “La primavera del lupo”, abbia fatto centro, senza riserve. Ne sono veramente contento, così come lo sono di aver avuto la possibilità di leggere questo delizioso libretto. Ad essere così “deliziosa” non è certo la parte più meramente contenutistica del romanzo, ovvero quella più strettamente legata alla guerra nelle sue fasi del tramonto, con le sue ben note crudezze. Ciò che invece colpisce positivamente, ciò che incanta, è la straordinaria bravura dell’autore nell’imitare così accuratamente il modo di pensare, parlare, agire proprio dei bambini decenni, con i loro ragionamenti in alcuni casi sorprendentemente ineccepibili, per quanto balzani e teneramente puerili agli occhi raziocinanti del lettore adulto. Ragionamenti che nella loro sbagliata illogicità fanno sorridere e al contempo possiedono una potenza evocativa straordinaria, tipica piuttosto di linguaggi poetici molto più astratti e complessi. Le immagini che il protagonista, Pietro, di dieci anni, evoca inconsciamente si caricano di un lirismo raffinato, con quella nota di magico/surreale che determinate situazioni e determinati oggetti sembrano racchiudere agli occhi di un bambino. Ed è proprio la voce di Pietro che ci guida nella fuga dai nazifascisti, raccontata dal suo punto di vista sgrammaticato, sebbene sicuro, pungente, ironico, pimpante e meravigliosamente conscio, a suo modo, di una realtà circostante portatrice di paura. Pietro è assieme al coetaneo Dario, “quello che sa i numeri”, e a una eterogenea comitiva in cui troviamo suor Elvira, seconda ed ultima voce narrante della vicenda, frate Ernesto, le attempate sorelle Maurizia e Ada, quelle che quando camminano insieme, di cui una col bastone, sembrano un mostro con cinque gambe chiamato, per praticità, “Mauriziada”. Altri personaggi si aggiungeranno alla comitiva, mentre altri cadranno nelle imboscate del destino, lo stesso che accompagna la rocambolesca fuga da un monastero di un’isola della laguna veneta fino a luoghi in cui cercare rifugio dalle persecuzioni ben note perpetrate nei confronti degli ebrei. Una trama dinamica che si abbina a una narrazione altrettanto dinamica, che merita un’ultima osservazione per mettere in luce un merito da non dare per scontato. Quello dell’equilibrio. Equilibrio stilistico che ha permesso all’autore di non cadere mai, nell’imitazione di un linguaggio infantile, nel lezioso e nella forzata ricerca di ispirare tenerezza. Egli resta sempre su un piano sinestetico di infantilismo che tenta a tutti i costi di apparire adulto. Allo stesso modo della sveglia personalità di Pietro, nel tentativo di dimostrare in ogni occasione la sua maturità, o quello che egli considera tale. E’ tramite lui che abbiamo la possibilità di trarne il lampante messaggio: i bambini capiscono molte più cose di quanto credano gli adulti e di quanto loro stessi diano a vedere. Comprendono anche le situazioni peggiori, nonostante siano così fortunati da avere dei filtri potenti, capaci di addolcire, travisare, proteggere, per quanto possibile, da un mondo che avrà tempo e modo, ainoi, di ferirli in un secondo tempo. Colui che svolge questa funzione, per Pietro, è un lupo immaginario. Forte, mansueto, misterioso, sicuro nella sua figura di garante e protettore della vita e dell’innocenza di quell’infanzia da preservare a tutti i costi. In definitiva, per quanto gli si voglia preservare, per quante precauzioni si prendano per mascherare le peggiori verità, i bambini capiscono, sono vigili, danno spiegazioni e, come dice la stessa suor Elvira, sono “infaticabili cercatori di senso”. Un senso che magari a noi fa sorridere, intenerire, rimembrare, ma che per loro è una certezza in cui credere e con cui spiegarsi quello che accade intorno a loro, come a tutti è capitato di fare da piccoli, come al sottoscritto, che credeva che le cose scure lasciate sotto il sole si scaldassero di più perché il sole stesso, credendole ombre, mettesse maggior luce nei propri raggi per illuminarle.
Sono cose in cui si crede, fino a che non si cresce e tutto sfuma in una consapevolezza più grande, e un po’ meno colorata. Ma questo è.
Leggetelo, sarà un bel viaggio in voi stessi.
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me lo segno grazie
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