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Passioni di provincia
Fra tutte le opere di Piero Chiara questa è quella che ha più le caratteristiche del romanzo, per completezza nello sviluppo della vicenda e perché ha un finale che lascia aperte diverse possibilità.
Vi sono anche altri elementi che concorrono ad attribuire questa classificazione, non presente in altri lavori dell’autore, con caratteristiche più di racconti lunghi, cioè di storie compiute, che iniziano e si concludono senza ulteriori prospettive.
Mi riferisco, in particolare, all’accuratissima ambientazione storica (siamo nell’immediato dopoguerra), alla struttura del giallo (presente peraltro anche in altre opere, come per esempio I giovedì della signora Giulia), nonché, soprattutto, alla rilevante introspezione psicologica dei personaggi, delineati in modo veramente mirabile. Al riguardo assume uno spessore di grande valore il ritratto di Matilde, una giovane vedova in cui è sempre presente il rimpianto per il matrimonio non consumato e la carica erotica, pronta a esplodere da un momento all’altro. La descrizione di questo status è di alta scuola e rivela un notevole studio della psicologia femminile.
Chiara però si supera con la figura dell’Orimbelli, un personaggio enigmatico, dalla doppia contorta personalità e che è di fatto l’autentico protagonista del romanzo. Costui è uno che vive di ricordi, soprattutto della guerra d’Africa, ma è sostanzialmente un frustrato, fallito come avvocato e che, se ha un po’ di soldi, è solo per aver sposato una moglie ricca, ma brutta.
Poi ci sono figure di contorno, altrettanto ben delineate, fra le quali l’autore stesso che narra in prima persona, ovviamente non con il suo vero nome; al riguardo, quell’incertezza della vita, quel desiderio di cambiare, restando comunque se stessi, propri di Chiara, sono sempre ben presenti.
Ho accennato prima all’ambientazione e ritengo ora doveroso parlare dell’atmosfera, sonnacchiosa e decadente, in cui si svolge la vicenda. C’è così un lago Maggiore che alterna momenti di luce ad altri cupi, c’è un giallo che non è lo scopo della narrazione, ma è funzionale strettamente alla trama, tanto che si intuisce subito l’identità del colpevole.
Non è però la ricerca dell’assassino lo scopo vero dell’opera, ma le motivazioni del delitto, l’analisi profonda della psicologia del reo, le reazioni dei personaggi di contorno, secondo un susseguirsi di scene che si ricollegano perfettamente, senza accentuazioni di ritmo, ma con una logica di inequivocabile validità.
L’insieme di questi elementi mi portano a concludere che La stanza del vescovo è una delle migliori opere della letteratura italiana del novecento.
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