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La messa senza prete
Un requiem funereo serpeggia tra le pagine di Materada, aggredendo il lettore ora nell'istintualità della folla , fagocitata dal liquido amniotico di una ristretta realtà contadina, incapace di opporsi in virtù di un'ideologia, ma soltanto merce da bistrattare e sfruttare per scopi propagandistici, ora nelle processioni compiante d esuli forzati, abbagliati dal sogno di un'Italia culla di possibilità e di ricchezza, ora nel malinconico abbandono al ricordo, al passato, non più riottenibile, ma non per questo meno tormentoso. Un requiem che è pure musica, melodia, scarnificato nello stile diretto, brutale, crudo e doloroso, o che si evolve nell'estatica celebrazione della terra, della proprietà che è in definitiva possibilità per i figli. Perchè, e Tomizza sembra suggerirlo, il desiderio di possedere è connaturato all'uomo, ma la vera questione è: fino a che punto è in grado di subordinare a sé la dignità umana, il rispetto per l'uomo, fino a che punto l'attaccamento morboso alla terra è capace di ancorare i contadini nella dimensione dell'ignoranza vigilata, custodita con gelosia dalle autorità?
Eppure Materada non è solo questo, non è il campo di battaglia della rassegnazione, contro l'accettazione o contro la ribellione, come invece accade in Silone: è il racconto epico, e nello stesso tempo straordinariamente umile, della povera gente, in grado di analizzare con impressionante acutezza i motori eterni di una mondo contadino che balena fragile tra rancori, odi e vendette, a cui sottende quella malignità genuinamente paesana che è mostro silenzioso, fatto di sussurri, eppure palese, immobile nel ricordo ossessivo di offese ataviche, che come una maledizione ineluttabile si scagliano sui figli, e sui figli dei figli. Sullo sfondo i contrasti tra Jugoslavia e Istria, ancora qui per la terra, scontro di autorità che pure ricorrendo alla violenza, incatenato nell'interesse delle alte gerarchie del potere, si ripercuote nel villaggio di Materada, e nel contrasto esemplare della famiglia Kozlovich in balia dell'arroganza e dell'ostinata tenacia di un vecchio zio, che è il simbolo di una mentalità contadina basata, in ultima istanza, sul profitto personale, e inevitabilmente, sul disinteresse verso gli altri. Ed ecco che la terra non è più la "roba" di Verga, quanto invece il ricordo romantico, quasi foscoliano, della patria, del luogo natio, smembrata eppure anelata, graffiante eppure fertile. E proprio questa tensione, che è in definitiva ricordo autobiografico, si scoglie in un amore che è ultimo disperato tentativo di sconfiggere la dissoluzione delle norme sociali, e il cambiamento, visto con sospetto; un amore che è fiamma debole, e si spegne nella passione divoratrice di un passato a cu non si vuole rinunciare.
Con una messa senza prete si chiude il libro, esito di un requiem funebre che ha ormai consumato se stesso. E l'uomo è un fedele in balia del destino, capriccioso eppure insostituibile, incapace di opporsi ad esso né affidandosi a se stesso, né ad un'autorità superiore (il prete, forse lo stato, forse addirittura Dio). E forse l'uomo si compiace anche del dominio della sorte, a volte ti colpisce e "prendere una sberla non fa male in certi casi: a volte si sente di non dovere più niente a nessuno".
E al termine del cambiamento, quando la decisione definitiva è presa, quando il dover abbandonare la propria terra è quasi imposizione del caso, rimane soltanto da seppellire i ricordi. "Addio ai morti".
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Commenti
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Marcello: Posso io essere in grado di recensire tali romanzi?
:-)
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