Dettagli Recensione
Romana Petri: “Tutta la vita”
Se non sulla felicità, questo è un romanzo sulla forza di volontà e sull’ottimismo. Li incarna bene Spaltero, con tanto impeto da trascinare anche l’improbabile (per gli altri) amore della sua vita, una donna con cui ha condiviso la lotta partigiana e che ha una pericolosa tendenza a parlare con i molti morti della sua sfortunata famiglia in cui i nomi di tutti iniziano per ‘a’. Per lui, Alcina, che è la vera protagonista, accetta di abbandonare affetti e luoghi conosciuti nella natia Umbria: come Adele H. ma con assai più fortuna e in compagnia di un cagnone a dir poco isterico, affronta il lungo viaggio per mare che la conduce in Argentina verso un matrimonio fatto di normali alti e bassi ma anche di un legame che resta saldissimo. Anche quando il destino (ovvero la storia) picchia alla porta colpendo spietato gli affetti più cari, Spaltero e Alcina trovano nella loro unione la forza di ripartire da dove tutto era iniziato. Un melodramma? Sì, e in parecchi passaggi anche a tinte forti, tanto che è stato naturale dare a Spaltero un volto che non fa parte dei miei beni iconografici, quello di Amedeo Nazzari: però si tratta anche una sfida vinta perché è notoriamente più facile raccontare l’infelicità e l’eccezionalità. L’autrice descrive con bravura i piccoli mutamenti nell’animo della sua protagonista e, anche se in queste oltre quattrocento pagine non tutto funziona, i momenti belli sono in netta maggioranza, come ad esempio la delicata prima notte di nozze. Tra i difetti si può invece annoverare un ritmo discontinuo, che a volte rallenta fino a rischiare l’impantanamento in special modo in alcuni dialoghi troppo verbosi, per poi accelerare di colpo quando entrano in scena i criminali di Videla (fra i quali, Rafael assomiglia davvero tanto ad Alfredo ‘el Rubito’ Astiz). In questi momenti più deboli c’entra, in un modo o nell’altro, Toni, intellettuale di scarso nerbo che sembra l’esatto opposto di Spaltero e Alcina: sballottato dall’esistenza a cui reagisce aggrappandosi alla bottiglia, continua a predicare bene e a non razzolare per niente risultando il personaggio più debole del romanzo, per quanto ingombrante e con la faccia di Al Pacino. E’ inevitabile pensare che Petri abbia voluto mettere a confronto la concretezza della gente comune (gente che ha fatto la Resistenza, comunque) con l’irresolutezza dell’uomo di pensiero che si è come ritirato in sé stesso, ma forse significa razionalizzare troppo: meglio lasciarsi andare al ritmo tranquillo di una lingua irregolare ma efficace – a parte qualche commistione dialettale che salta fuori in modo all’apparenza casuale – nel raccontare una bella storia d’amore che attraversa quasi quattro decenni nella seconda metà del Novecento.