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L’epica della povera gente
Dice bene Claudio Magris quando scrive, a proposito di Materada (il primo romanzo di Fulvio Tomizza),: “Quando uscì nel 1960 “Materada” – il primo e ancor oggi miglior romanzo dell’allora giovanissimo e sconosciuto Fulvio Tomizza – arricchì di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità;….Il mondo da cui nasceva “Materada” - l’Istria nel momento dell’ultimo esodo, nel 1954 – era un mondo realmente straziato dai rancori, torti e vendette sanguinose fra italiani e slavi e Tomizza l’aveva vissuto e patito.”.
Materada è un piccolo borgo vicino alla più grande Umago, in una terra di frontiera, questa dell’Istria, punto d’incontro di tante etnie (Italiani, Slavi e Croati), nei secoli assoggettati alla Repubblica Veneta, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia e infine inglobati nell’allora nascente Jugoslavia.
E’ una terra aspra, ricca di contrasti, che si riflettono anche nei suoi abitanti, perennemente diffidenti, e non solo a livello di etnie, ma anche all’interno di ciascuna di esse, in forza di quella precarietà del proprio luogo di vita che tutto condiziona e tutto contrappone.
Al termine dell’ultima guerra mondiale, dopo lunghe trattative diplomatiche, a seguito del Memorandum di Londra si definì un nuovo assetto territoriale che assegnò alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia (in pratica quasi tutta l’Istria e le terre ad Est di Gorizia) dando luogo a un massiccio flusso migratorio dell’etnia italiana verso il nostro paese.
Tomizza, che visse quei periodi, di questo parla in Materada, un romanzo corale, per quanto incentrato sulla famiglia Kozlovich, in cui si riflette l’esperienza personale dell’autore. E’ un’opera in cui speranze, delusioni e rassegnazioni si avvicendano, emergono, si assopiscono, ritornano. E’ palpabile lo stato d’animo degli italiani, l’emarginazione nei loro confronti del regime comunista di Tito, un intreccio di storie di tanta povera gente la cui unica e ultima scelta è di restare, perdendo la propria identità nazionale, o andarsene verso l’ignoto, un’epopea di un esercito di straccioni alla ricerca di una patria definitiva. E in questa storia se ne insedia un’altra, quella della rivendicazione della famiglia Kozlovich della terra dello zio, sulla quale hanno lavorato e dato il sangue, perché la terra deve essere di chi la lavora. La figura del vecchio parente, attaccato alle sue proprietà, gaglioffo, sfruttatore per istinto sembra rappresentare l’onnipotenza di chi ha la forza, è la stessa protervia che ha diviso, smembrato, sradicato la popolazione italiana dell’Istria. Si parla di confini come espressione geografica, ma i politici e i diplomatici nulla sanno, oppure vogliono ignorare, i diritti delle genti che là nascono, vivono e muoiono.
Il romanzo è spesso crudo, la narrazione è pure sofferta, ma il ricordo della propria terra, quando riemerge, è autentica poesia, che raggiunge anche vertici sublimi, come nelle ultime pagine, con quella messa senza prete in cui tutti si ritrovano prima della partenza.
Materada è semplicemente stupendo.