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Il sublime e il volgare
E’ una recensione per me difficile, che ha richiesto una pausa di riflessione dopo aver girato l’ultima pagina del libro.
Credo che Busi lo ritenga in un certo senso il suo testamento spirituale perché l’ha ripreso spesso , tanto che quella letta da me è la “nuova edizione totalmente riveduta dall’autore”. Un po’ come Leonardo con la Gioconda, quadro costantemente al suo seguito e ritoccato più volte.
Fosse anche solo per questo, questo testo merita il rispetto che è dovuto a qualsiasi esperienza umana.
Dopo un incipit da Storia della letteratura che mi ha tolto letteralmente il fiato per la bellezza e la verità che contiene -“ Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza…..”- Busi ripercorre l’infanzia di Barbino, il terzo figlio di una povera famiglia della provincia bresciana.
Il padre, bellissimo d’aspetto ma dedito al dolce far niente, rifiuta addirittura di vederlo per lungo tempo per la delusione che non sia nata la femmina tanto desiderata.
La madre sgobba dalla mattina alla sera per mantenere tutta la famiglia, compresa Lucia, l’ultima nata,
che sarà anche l’unica che Barbino riuscirà in qualche modo ad amare.
Questa è, a mio parere, la parte migliore del libro, dove gli odori e le atmosfere della campagna bresciana ti arrivano diritti al cervello, mettendo in moto ricordi, sensazioni, emozioni che portano Barbino a scoprire cosa vuole veramente, a tentare di andare all’essenza del proprio essere al mondo.
Indimenticabile l’episodio della vestaglia materna, pregna dei suoi umori, che Barbino indossa per gioco e che probabilmente segnerà la sua sessualità futura, quando a quattordici anni lascerà la casa paterna per andare incontro al suo destino e al suo essere “diverso”.
Diverso perché omosessuale, differente perché nella sua testa niente conta quanto la Parola: letta, studiata, impastata in favole apocrife, come lui le definisce, o cesellata sui movimenti dell’anima. Ma niente, in questa sezione, è lasciato al caso; ogni episodio ci racconta qualcosa e ne capiremo appieno il significato nel prosieguo del racconto.
Il tutto con una prosa attenta e talentuosa, a tratti raffinata tanto da usare termini che, non mi vergogno a dirlo, ho dovuto cercare nel vocabolario, ma senza tuttavia scadere mai nello stucchevole accademismo.
E dopo, ahimè, vengono gli anni della giovinezza e della maturità sessuale, che nel libro si traducono in martellanti episodi di prostituzione e ripetuti rapporti anali, che bastava descriverne qualcuno per avere idea di quello che l’autore ci sta comunicando.
A Parigi, dove un Barbino ventenne avrà la protezione di tre donne particolari, il protagonista condividerà la casa di Arlette, la più giovane del trio, che si innamorerà, non ricambiata, di lui.
Geneviève, bella ed enigmatica, si scoprirà alla fine essere Il Minotauro presente in un sogno di Barbino e non ci vuole molta fantasia per capire perché Busi usi questo riferimento mitologico…
Insomma, anche questa donna bellissima alla fine è un uomo e si inchiappetta (scusate la volgarità, ma ormai Busi mi ha contagiata) le altre due.
Suzanne, la terza, è la probabile compagna fissa di Geneviève.
E qui mi sono proprio arrabbiata. Perché mai due donne dovrebbero avere solo rapporti anali con un uomo travestito da donna ? Che tipo di perversione è mai questa, e Geneviève è un travestito , un ermafrodita?
Sinceramente ormai che ho chiuso il libro non me ne frega più niente, ma sono pronta a leggere un altro romanzo di Busi se qualcuno me ne segnalerà uno in cui l’autore dimentica per qualche istante di essere omosessuale. Lucio Dalla, per fare l’esempio di uno a cui Busi ha rinfacciato di non avere mai fatto outing, ha creato canzoni che sono capolavori senza per forza violentare con le sue preferenze sessuali chi lo ha ascoltato.
E non ditemi che sono omofobica, perché non è vero. Semplicemente, considero la sessualità solo un aspetto della personalità di ognuno di noi , e non è neanche il più importante.
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