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In fuga
 
In fuga 2008-07-31 03:07:32 Cinzia
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Opinione inserita da Cinzia    31 Luglio, 2008

Fuga dai nomi propri (o dal proprio nome?)

Da sempre siamo portati a costruirci una tana, per cercare riparo, per evitare le ingiurie atmosferiche, per lasciare fuori, nel buio, i pericoli, le fiere, le incognite.

Tana, buio, pericoli, fiere: ognuna di queste parole ha in sé tanti significati diversi che si aggrappano alla vita reale, ma anche a quella immaginaria, onirica, inconscia. La tana può essere contemporaneamente la casa e il sistema di valori che usiamo quotidianamente per vivere; il buio è l'assenza di luce, ma anche l'assenza di conoscenza e di stimoli; i pericoli sono materiali, ma anche tutti gli attentati che subiamo al nostro sistema di autocontrollo; infine le fiere sono gli animali-umani aggressivi che incontriamo nella vita, ma tutti possediamo un'aggressività interiore che è sempre presente e ci minaccia costantemente.

Per tutti i viventi la tana-nido-casa è il luogo prediletto dove costruire la vita, coltivare gli affetti, ripararsi quando serve.

“In fuga” di Massimo Ulivari ci dice invece che la tana-nido-casa può essere vissuta come una gabbia, come “un luogo fisso” che è anche “un tempo morto”, dal quale è necessario fuggire per ritrovare la potenza interiore per vivere.

Ecco che allora compare una nuova meta da raggiungere: il “nowhere”, il “Nirgendwohin”, un luogo qualunque dove andare, accessibile a tutti, è vero, ma assolutamente anonimo, molto frequentato, apparentemente senza regole.

Le fughe sono però molteplici, all'interno di questo libro, linguisticamente e strutturalmente complesso. L'autore non si limita a lasciare la casa e la famiglia perché l'abitudine, la consuetudine uccidono l'amore e la voglia di vivere, ma fugge, in momenti diversi del testo, dalle regole di convivenza, dalla propria coscienza, dalla propria storia, dai luoghi abituali di vita e di lavoro, dai propri affetti e dalla voglia di costruirne di nuovi, dai nomi propri.

Quest'ultima fuga è forse il dato caratteristico del libro, che lo rende interessante e nuovo nel panorama, spesso banale, delle novità editoriali italiane.

L'anonimo protagonista del racconto ripercorre, a capitoli alterni, le esperienze della sua vita cosciente e incosciente di uomo adulto, che lo hanno portato nel luogo dove si trova e che scopriamo soltanto alla fine del testo. Mentre nei capitoli dispari - tempo presente - si sviluppano le vicende legate alla sua fuga dalla famiglia, dalle responsabilità quotidiane, come il lavoro, la gestione di uno stanco rapporto di coppia e dei figli, nei capitoli pari – tempi del passato - il protagonista ci spiega il perché di ciò che ha scritto in precedenza e tenta di ritrovare un legame in progressione, anche temporale, tra gli avvenimenti.

Nella prima parte non servono i nomi per individuare i personaggi e questa scelta stilistica evidenzia la ritrovata fantasia e volontà esperienziale del protagonista che, finalmente libero perché in fuga, addita e cataloga i personaggi che incontra in base alle loro caratteristiche o al rapporto che instaurano con lui: i nomi non sono più “propri” ma “attributivi” di caratteristiche fisiche o comportamentali, o di eventi specifici, come avviene con l'ultimo personaggio, una giovane donna con la quale sembra aver ritrovato l'amore, che il protagonista incontra e che sarà la vittima consapevole della sua perdita di ogni aggancio con la realtà.

Nella seconda parte invece, proprio perché il protagonista scrive in un luogo di costrizione – tana-nido-casa-carcere – i nomi propri assumono di nuovo il loro valore: sono la prima gabbia identificativa che ci portiamo dietro quotidianamente per tutta la vita. Con il nome “non esiste nowhere, non c'è un nowhere (noname, potremmo aggiungere) sei sempre pedinato, inseguito, rintracciato.”

La fuga che l'autore vuole evidenziare, ci sembra, è quindi quella dal nome proprio (o dal proprio nome?)

Più che una trama avvincente o un intreccio ricco di patos e/o di colpi di scena, di questo racconto colpisce soprattutto questo aspetto: l'aver tratteggiato un'esistenza apparentemente fuori dalla normalità, fuori dal “treno del tempo”, per indicarci alcuni elementi che caratterizzano la profonda crisi d'identità di un uomo quarantenne che, pur tentando, non riesce a riconoscersi in schemi precostituiti e che dunque non trova collocazione in un mondo che non lo vuole, perché non vuole soggetti “diversi”.

Sentirsi diversi, voler essere assolutamente soli, e quindi assolutamente liberi, è patologia.

Da curare con le cause stesse del male: l'attribuzione del nome proprio , il mettere un ordine temporale nelle vicende della vita (scrivendo le proprie esperienze, come fa il protagonista), il rientrare in casa (in carcere/manicomio, nel caso del protagonista).

In tutta la vicenda, pur se narrata da protagonista, l'autore non esprime compiacimento, partecipazione, non ci fornisce vie di scampo, né soluzioni buoniste: la vita vera, del resto, non ci offre niente del genere. E infine, in un unico slancio di identificazione con il protagonista, all'autore non resta che citare lo scrittore che, forse più di tutti i poeti conosciuti, simboleggia la difficile relazione con la realtà dell'uomo: Leopardi.

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"La cognizione del dolore" di Gadda
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