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Sergentmagiù ghe rivarem a baita?
“ Sergentmagiù ghe rivarem a baita?” ripete spesso l’alpino Giuanin, rivolgendosi al sergente maggiore Mario Rigoni Stern.
In terra di Russia andarono in molti e ben pochi tornarono, e fra questi superstiti c’è stato anche Mario Rigoni Stern, che in questo suo romanzo d’esordio ha voluto raccontare che cosa realmente accadde.
Non crediate però che si tratti di un racconto memorialistico, perché va ben oltre il pur riuscito intento di spiegarci la famosa e tragica ritirata dell’ARMIR.
Le grandi qualità di scrittore di Mario Rigoni Stern sono già evidenti in questo suo primo libro, le stesse che, in occasione della recensione del suo ultimo lavoro (Stagioni) mi hanno indotto scrivere che ci trovavamo di fronte a un capolavoro, e lo è anche questo.
Quando a distanza di anni, non pochi, anzi molti, si rilegge un romanzo e si provano le stesse emozioni d’un tempo è perché quel testo ha mantenuto immutata la sua bellezza e ciò avviene solo quando si tratta di un’opera di elevatissimo valore.
L’autore ha saputo ricreare l’atmosfera in modo tale che il coinvolgimento è totale; si legge, e poco a poco si è presenti al caposaldo, ci si trova intorno al tagliere con la polenta di segale, si vivono le pericolose ore dello sganciamento, e infine si cammina, si combatte, si patisce la fame, si soffre il freddo, si prova l’angoscia della lunga ritirata.
Già questo è molto, ma Il sergente nella neve è assai di più, è un’opera dove è sempre presente la natura, ammirata anche quando è inclemente e con pagine in cui si respirano lo sgomento e l’attrazione per la grandezza nell’universo, ed è inoltre un’ode sommessa a una virtù ormai purtroppo desueta, la pietà.
Così, fra un combattimento e l’altro, descritti magistralmente, c’è il tempo per le riflessioni di fatti appena accaduti e che nel trascorrere del tempo (l’opera verrà ultimata qualche anno dopo quel tragico 1943) si sfumano per scoprirne gli aspetti più reconditi. E’ il caso del pasto consumato in un’isba insieme a dei soldati russi, in una pausa della battaglia di Nikolajewka. Al riguardo la riflessione di Stern è quanto semplice ed efficace: “In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto di più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini.”
C’è tutto il senso della pietà, prima per se stessi e poi per gli altri, c’è quella comprensione della propria e dell’altrui debolezza, c’è una ritrovata umanità che supera ogni barriera e confine.
E’ un grandissimo messaggio di pace di un uomo che, partito volontario per la guerra, ne ritornerà maturato, ma soprattutto consapevole dell’autentica dignità di ogni essere umano.
Quello che poi sorprende in questo primo romanzo è la capacità di prosa poetica che ha l’autore, con quelle descrizioni brevi, ma ispirate, del firmamento, del Don, della pianura ghiacciata. Sono stacchi che non sono avulsi dalla narrazione, ma che si innestano nella stessa in modo preciso e solo quando serve, a riprova di un’esperienza professionale innata.
Al riguardo Rigoni Stern si supera nelle ultime pagine con quella ritrovata serenità nel caldo di un’isba e con le ragazze russe che filano la canapa cantando le loro canzoni popolari.
Mi raccomando di leggere le sei righe finali, perché anche in voi entrerà dolcemente questa serenità.
Giuanin e tanti altri non sono tornati, ma hanno trovato la loro baita nella steppa russa.
Mario Rigoni Stern, che ha avuto la fortuna di uscirne vivo, non ha voluto dimenticare, anzi ha voluto ricordare soprattutto a noi l’insensatezza della guerra.
E’ un libro che non si può non leggere e che rientra, giustamente, fra i grandi romanzi pacifisti, con pari dignità del più famoso Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque.
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Mi segno il titolo che assolutamente non conoscevo .