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Gli anni che furono....
In “Hanno ucciso il bar Ragno” Nino Nonnis rievoca in un “com’eravamo” ironico, nostalgico e attento, la Cagliari tra gli anni sessanta e settanta e soprattutto la vita di un quartiere, il quartiere di San Benedetto e di una via, la via Manzoni, dove si trovava un bar: il Bar Ragno, centro di incontro e di scambio di esperienze dei giovani del rione. Un bar che oggi non esiste piu’, soppiantato da un esercizio più moderno, un bar che scomparendo ha fatto venir meno quell’antica funzione aggregante per la quale era rinomato. Ma non è solo la vita di quello specifico quartiere che viene fuori, ma quella di un’intera città, di un modo di vivere e di pensare, delle passioni e della condivisione di luoghi comuni e di personaggi, di un alto senso di appartenenza al cuore di un capoluogo ancora vivibile. Nel suo ricordare, ogni persona, a cui è dato reale nome e cognome o è resa perfettamente riconoscibile, è delineata con ricchezza di caratteristiche proprie, in un’accurata analisi personale, come sempre pronta e pervasa dalla luce dell’arguzia più coinvolgente. Lo stile di vita di allora subisce un continuo confronto con le abitudini odierne in un crescendo di contenuti mutati, persi o acquisiti, che riflettono il risultato di vecchie e nuove realtà, non sempre positivo nel suo bilancio finale. Ho vissuto, da bambina e all’inizio dell’adolescenza, anche se un po’ “di striscio”, quel periodo e conosciuto alcuni elementi di questo spassosissimo puzzle. Molte le pagine esilaranti con dialoghi e battute in un cagliaritano autentico e italianamente intraducibile. Impossibile non lasciarsi andare…..E’ quello che ho fatto. Un catapultarsi all’indietro nell’evocazione di certi tipici personaggi cittadini, di un’atmosfera differente, di una parlata che era piu’ facile udire, fino ad una liberatoria risata, di quelle vere e forse un po’ antiche, di quelle che sembra non ritornino mai più e che invece a volte rispuntano irrefrenabili e lacrimose. Adoro il cagliaritano, anche se faccio parte di quei mezzosangue che hanno “imbastardito” la lingua. Infatti in casa mia non si parlava il dialetto, a parte qualche battuta (mia madre era piemontese), ma con il passare del tempo mi trovo ad usarlo sempre di piu’ e pur con i miei grossi errori continuo a usufruirne (come faceva il padre dell’autore con il dialetto di Sindia) per puro piacere e per un legame con la mia città, che nutro sempre più intensamente. E per quella lontana atmosfera, rammentata in modo così autentico e per quella risata smarrita e inaspettatamente affrancata, non posso che esprimere il mio grazie piu’ sincero all’Autore.