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La ricerca della libertà
“Arriva sempre un’età in cui i giovani trovano insipido il pane e il vino della propria casa. Essi cercano altrove il loro nutrimento. Il pane e il vino delle osterie che si trovano nei crocicchi delle grandi strade possono solo calmare la loro fame e la loro sete. Ma l’uomo non può vivere tutta la sua vita nelle osterie.”
A volte è strano il destino riservato ad alcuni uomini, il cui intrinseco valore, pur ragguardevole, viene volutamente ignorato, e non perché opinabile, ma in quanto antitetico a una linea politica che contempla solo l’accettazione, senza se e senza ma, in un soffocamento dello spirito critico che inevitabilmente porta alla disgregazione delle ideologie.
E’ questo il caso di Ignazio Silone, acclamato all’estero e ignorato in patria, prima per la sua natura di antifascista e poi per quella di disilluso del comunismo come realizzato nell’allora Unione Sovietica. Ci vorranno anni, nel dopoguerra, perché gli intelletuali allineati, spesso per comodo, riconoscano allo scrittore abruzzese quelle indubbie qualità già ravvisate da altri, più indipendenti, meno parziali, come Thomas Mann, Heinrich Boll, Albert Camus, Indro Montanelli, e solo per citarne alcuni.
Quest’uomo, alla perenne ricerca della verità e della libertà, che aveva visto nel marxismo la possibilità di realizzazione del messaggio cristiano, fra i fondatori a suo tempo del partito comunista italiano, esule quale antifascista, ebbe il difetto di contestare il dogmatismo sovietico, che arrivava perfino all’eliminazione fisica dei non allineati. Per Silone il rapporto fra gli uomini deve essere paritario, deve estrinsecarsi in un confonto di idee senza preconcetti, con uno spirito critico costruttivo. E’ evidente come un simile pensiero non potesse che scontrarsi con una linea politica assolutistica, basata solo sull’unanimità imposta dei consensi. Ma anche il cristiano Silone non poteva trovarsi in una chiesa troppo lontana dallo spirito evangelico, burocratizzata e pur essa assolutista. E quindi non è un caso se di sé ebbe a dire sia “sono un socialista senza partito” che “un cristiano senza chiesa”.
Esule in Svizzera, già famoso per Fontamara, Silone volle fornire la sua versione dell’esperienza comunista, della sua espulsione dal partito con un romanzo sì di invenzione, ma in cui il personaggio principale, Pietro Spina, attraversa, alla vigilia della guerra d’Etiopia, le dolorose tappe dell’emarginazione, sia quella ufficiale in quanto antifascista, sia quella clandestina, come portatore di idee critiche a quelle predominanti del partito comunista.
Sebbene i protagonisti siano molteplici su tutti ne aleggia uno solo, invisibile, ma pregnante: la rassegnazione, quella stessa rassegnazione che si incontra in Fontamara e che porta i cafoni, per un attimo risvegliati dal topore, per precipitarvi nuovamente, a porsi una domanda, la cui risposta sembra lontanissima a venire: che fare?
In questo contesto Pietro Spina, per quanto espulso dal partito, braccato dalla polizia fascista, non demorde; in lui c’è qualche cosa più di un’idea politica, esiste invece e prende sempre più corpo la vocazione di dare, anche se stesso, per il bene degli altri, un bene comune senza essere comunista pur condividendo alcuni principi del marxismo, una società più egualitaria ove tutti possano avere, dando, nella piena libertà di critica che non esclude la solidarietà, anzi la rafforza. Un pensiero cristiano, si direbbe, e in effetti è così, ma lontano dal rigido rigore di una Chiesa che strada facendo sembra aver perso gli insegnamenti di un uomo che, nell’umiltà, ha lasciato una scia di speranza per un mondo migliore.
Non c’è pero un arroccamento su posizioni del passato, nessuno è tanto giovane da non essere abbastanza vecchio per avvertire in se stesso che ogni cambiamento è possibile nel rispetto del pensiero del Cristo. In tal senso l’autore, dopo l’edizione del 1936 intitolata Pane e vino, negli anni del dopoguerra pose nuovamente mano alla sua opera smussandola, modificandola in quel tanto che gli sembrava indispensabile senza tuttavia tradire il tema e lo spirito originario, ed è così che nel 1955 esce Vino e pane.
In questo romanzo, oltre a un Pietro Spina, per necessità travestito da prete, troviamo tanti altri personaggi indimenticabili, come Don Benedetto, il sacerdote che porta avanti il discorso cristiano al di fuori dei rigidi canoni della chiesa, come Bianchina, una fanciulla del tutto spontanea che in cuor suo è innamorata di quell’uomo che, nelle vesti talari, la ridona alla vita, senza dimenticare la figura sublime di Murica, traditore suo malgrado, e, soprattutto, un sogno in carne ed ossa, ma talmente lieve da svanire come sboccia, rappresentato da Cristina, profondamente religiosa, quasi mistica, l’unica del tutto in sintonia con Pietro che segretamente ama.
La scrittura è scorrevole, sebbene ricercata, e straordinaria è la capacità di descrivere con poche parole paesaggi e di ricreare atmosfere.
Scorrono così davanti agli occhi i poveri paesi della Marsica, i cafoni inebetiti dalla fatica, smarriti nell’assenza di speranza, una serie di immagini che stringono il cuore, a volte crude, quasi violente, altre lievi, altre ancora, come la veglia funebre in casa del padre di Murica, dai toni semplicemente sublimi.
E su questo triste episodio della perdita dell’unico figlio desidero soffermarmi, riportando di seguito uno stralcio, perché la scena richiama assai l’ultima cena di Gesù Cristo: “Il vecchio Murica in piedi, a capo del tavolo, dava da bere e da mangiare agli uomini attorniati. > egli disse > Altri arrivarono. Il padre versò da bere e disse: >”.
Vino e pane è uno di quei romanzi che avvince poco a poco, ma che entra, scava, suscita emozioni e commozioni, fa sciogliere in lacrime una volta terminato.
E se vogliamo definirlo capolavoro, facciamolo pure, senza esitazioni, perché in effetti questo libro è di una bellezza straordinaria, per certi versi superiore addirittura a Fontamara.
Indicazioni utili
Il segreto di Luca, di Ignazio Silone