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La vita accanto
L’utilità che trovo in Qlibri (e uno dei motivi che mi ha avvicinato a questo sito) è quella di poter suddividere il voto in più parti. Perché per questo libro è ciò di cui ho più naturalmente bisogno.
Innanzitutto il libro è ben scritto, composto e misurato in ogni paragrafo, quasi la scelta delle parole fosse stata un punto cardine intorno a cui costruire la storia.
Una ragazza brutta, orrendamente brutta, nata da due genitori tutt’altro che brutti, cosa che fin dall’inizio del romanzo dà una giustificazione (non completamente accettabile, tra l’altro) a una certa repulsione da parte della madre per la figlia e un distacco del padre da tutto ciò che la riguarda.
Quasi trascurata dai genitori, Rebecca, la protagonista, troverà una giustificazione della sua esistenza in altro, nell’arte musicale, grazie alle sue splendidi mani, ma soprattutto grazie alla vicinanza e comprensione della tata Maddalena (una donna le cui parole, con frequenti riferimenti ai testi sacri, riequilibriano nel libro le posizioni estreme di Rebecca verso un Dio talvolta assente). Sarà importante per Rebecca anche l’amicizia con Lucilla, l’unica compagna di scuola che nel tempo le rimane vicino nonostante la sua bruttezza.
Viene da pensare, alla fine, al romanzo come una sorta di paradigma contro un clichè stereotipato di una iconografia a cui, oggi, si rifà il concetto di bellezza e di glamour. Un libro che mette in primo piano la donna e tutte le sue capacità di riscatto, con l’unico uomo (il padre) che passa in sottotono.
Un libro, però, che sotto questa chiave di lettura, fin dalle prime pagine sembra un po’ troppo esplicito, in quanto il rigetto di una società in cui la bruttezza equivale all’emarginazione qui viene trattato senza sconti, senza posizioni intermedie, spingendo il lettore verso un’idea che cristallizza il dualismo bello/brutto, un bello imperante nella società e un brutto inesorabilmente emarginante.
Forse è proprio l’estremizzazione di questi concetti a rendere debole il romanzo.
L’opinione, rigidamente personale, è che lotte così esplicite (in questo caso tra bello e brutto) talvolta rendano prevedibili certe riflessioni. Avrei pensato più a situazioni diverse, intermedie ma non per questo meno incisive, dove, più che l’estrema bruttezza, possono essere più significativi (o determinanti) l’imperfezione o il difetto, a far emergere il disagio di chi, lontano dalla bruttezza totale, come quella di Rebecca, sa di essere stata, in qualche modo, “limitata” nella vita. Ma quest’ultima ripeto, è una mia idea sul tema che esula dal giudizio sul racconto.
Le voci dei personaggi non sono particolarmente caratterizzate, tranne quella di Lucilla, la cui voce con quel suo sil-la-ba-re le parole pare ancora di sentirla. Ecco, forse questa voce è l’unica cosa che, a distanza di tempo, mi è rimasta del romanzo. E questo non depone a favore, se non fosse per quella abile capacità che ha avuto la Veladiano nel mostrare un’estrema cura per la scelta delle parole.
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(all'inizio avevo timore che fosse tutto tempo perso, ma i commenti che ho letto in qlibri mi fanno davvero piacere.)
a.
p.s.: a questo punto diventa una responsabilità scriverne altri...
:-)
complimenti,sul serio, scrivi davvero molto bene!!!***
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